Lesbo, fra i “dimenticati” dall’Ue

Lesbo, fra i “dimenticati” dall’Ue

Oltre 4mila profughi bloccati nel campo di Kara Tepe in attesa di un pezzo di carta che non arriva mai. Ayan, somala, è qui da due anni scuote la testa davanti al terzo rigetto. «Aspettare, aspettare, aspettare»

L’Europa si è fermata a Lesbo. Lo spiega bene Ayaan, donna somala, scuotendo la testa davanti al pezzo di carta con il terzo rigetto della sua domanda di asilo. Da due anni e tre mesi vive sull'isola greca, ad una manciata di chilometri dalle sponde turche, e non sa cosa succederà di lei. Dei 4.200 abitanti di Kara Tepe, tra le tende e i container del più grande campo dell'Unione, molti sono nella sua stessa situazione. Anche negli altri campi greci, "strutture controllate chiuse" per il Governo ellenico, la disperazione è una sfida da sconfiggere ogni giorno: il 10 luglio, Hamid, un ventiduenne afghano, si è impiccato dentro al container in cui alloggiava a Schisto, vicino ad Atene. Lui ha retto solo fino al secondo diniego. A Kara Tepe i tentativi di suicidi riguardano anche i minori. Qui, il 45% degli abitanti ha meno di 18 anni: i "dimenticati" che fanno così paura all'Europa dell'inverno demografico sono soprattutto bambini. Alla scuola vera e propria non va nessuno (solo 3 bimbi), qualcuno riesce ad accedere ai corsi delle Ong. Tante anche le donne sole, il cui destino è minacciato dalle reti della tratta.
Dal 1° gennaio gli arrivi via mare verso le isole greche sono stati solo 1.300 (e alcune decine di morti in mare). Erano stati oltre 50mila nel 2019, di cui 35mila a Lesbo. Sono diminuiti perché in questo periodo Erdogan sta collaborando: blocca le partenze, riprende sulle coste i gommoni che Frontex e la Guardia costiera greca intercettano, addirittura sono stati segnalati dei rinvii dopo pochi giorni di permanenza in Grecia, senza la possibilità di chiede- re l'asilo. Insomma, la Turchia sta facendo il lavoro per cui l'Europa le ha promesso quest'anno tre miliardi di euro, che si aggiungono a quelli già versati dal 2016.
L'hotspot di Moria, distrutto dall'incendio del settembre 2020, era stato costruito nel 2015 per volere dell'Ue. L'Agenda europea sull'immigrazione prevedeva che nel centro le persone rimanessero solo pochi giorni, per essere identificate e trasferite in altri paesi dell'Unione attraverso i ricollocamenti, ma nel 2017 quel programma è stato sospeso e nel 2019 si è arrivati ai 22mila profughi del campo di Moria. Intanto, nel 2016, l'accordo tra Europa ed Erdogan (rinnovato lo scorso giugno) prometteva la diminuzione delle partenze e la possibilità di respingere in Anatolia i profughi siriani, somali, afghani, pachistani e bengalesi, tutte nazionalità per cui l'Ue considera sicura la permanenza in Turchia.
Nel 2020, mentre le autorità greche ricostruivano, dopo l'incendio, un nuovo insediamento, molti sono scappati - con o senza documenti - verso la terraferma, dirigendosi sulla rotta balcanica o in altri modi per lasciare la Grecia. I "rimasti" sono 4.200, soprattutto afghani (il 45%), somali, siriani, congolesi; tra gli ultimi arrivati, in aumento i sierraleonesi e altre nazionalità subsahariane. Addirittura ci sono famiglie ferme sull'isola da tre anni. Dal campo si può uscire solo alcuni giorni, a determinati orari. Un netturbino mi racconta che tra i rifiuti sono molto comuni le bottiglie piene di urina: soprattutto le donne hanno paura di andare nei pochi bagni chimici. «È una situazione insostenibile», mi conferma Khadija, una ventenne siriana di Deir el-Zor, da sedici mesi a Kara Tepe. Una landa desolata senza ombra, a 40 gradi d'estate, con tende o container sovraffollati come unico riparo per il freddo invernale. La incontro alla Tenda dell'Amicizia, dove la Comunità di Sant'Egidio distribuisce pacchi alimentari e offre 400 pasti al giorno, mentre i bambini, finalmente, hanno un posto per giocare. «Wait, wait, wait...», «aspettare», sospira. Anche lei non sa spiegare perché, dopo tre interviste, abbia avuto solo rigetti: «In Siria la mia casa è stata distrutta dalla guerra. Mio marito, ingegnere elettronico, è in carrozzina per le conseguenze di una bomba». Ora sono bloccati in una tenda, in condizioni igieniche debilitanti. «Lui di notte non riesce più a dormire per lo stress; io non ce la faccio più». Accanto a Khadij c'è Noura, di Aleppo, vedova siriana con 4 figli e una madre anziana senza quasi più parole. Anche lei fatica a sperare, è arrivata al quarto rigetto. Appena può uscire dal campo, però, va alla Scuola della Pace dove porta i suoi figli a imparare a scrivere. «Ho solo voi e Dio», dice rivolta a Monica Attias di Sant'Egidio, che la conosce ormai da anni: «Più di 250 volontari della Comunità da tutta Europa - spiega Attias - si alternano a luglio e agosto. È la nostra scelta di non chiudere gli occhi di fronte ai "dimenticati" di Lesbo». Se l'Europa volesse, la soluzione ci sarebbe: «Sono i corridoi umanitari che garantiscono il ricollocamento e un percorso di integrazione nel contesto locale». Negli ultimi mesi, ricorda la coordinatrice dei corridoi dalla Grecia, abbiamo spostato in Italia 101 richiedenti asilo, mentre 69 erano stati trasferiti in collaborazione con la Santa Sede. Tra di loro, i 12 imbarcati da Papa Francesco nel volo di ritorno durante la sua visita a Lesbo del 2016, poi affidati proprio a Sant'Egidio.

 

La 17enne afghana

Il sogno di Sharbat: la Francia o il Belgio e studiare a scuola 

Sharbat vive a Kara Tepe. Anche se si parla di argomenti delicati, occorre stare all’aperto: sotto il sole, i 40 gradi sono più sopportabili dell’interno del container. Questa diciassettenne afghana è la più grande di quattro fratelli. La sua famiglia è di Herat, la città per anni presidiata dai militari italiani e ora assediata dai talebani. «Abbiamo ricevuto le foto della nostra casa bruciata, di soldati uccisi nelle vie vicine». La mamma è tagika, il padre pashtun e la mescolanza etnica in Afghanistan può essere un problema: quando le minacce  di morte alla famiglia e di rapimento per un matrimonio forzato a lei sono aumentate, i genitori  hanno deciso che sarebbero scappati e, dopo Iran  e Turchia, sono partiti in gommone dal piccolo porto di Çanakkale. Sono passati due anni e due rigetti della domanda di protezione internazionale. Pochi mesi dopo l’arrivo, Sharbat ha pensato di non farcela più: nel 2019, a 15 anni, ha ingerito 150 pasticche ed è stata ricoverata all’ospedale, salvata da  una lavanda gastrica. Da allora, come molti abitanti di Kara Tepe, assume farmaci antidepressivi.  Suo padre invece ha avuto un infarto e ha un rene non funzionante, anche la mamma è da tempo in attesa di visite mediche specialistiche. «Non credo  – dice Sharbat – che al campo ci sia qualche famiglia senza problemi di salute». E ripete più volte che l’essere bloccati per anni logora, «provoca mental stress». «Ti sembra – continua la ragazza – di essere un uccello che ha perso le ali. L’Europa non è  così, vero?». Le domando dove vorrebbe vivere: «Germania, Francia, Italia, Belgio...», è un elenco che si allunga e che si conclude dicendo «qualsiasi Paese pur di andare via da qui». Le chiedo allora quali siano i suoi sogni: «Studiare, perché in questi anni al campo non ho potuto, poi mi piacerebbe fare un lavoro in cui aiutare gli altri, costruirmi  finalmente un futuro vivendo in pace». Poi però scuote la testa e indica il filo spinato che circonda il campo: «Qui i sogni finiscono».
 


[ Stefano Pasta ]