Gli sbarchi in Grecia sono scesi dai 50mila di due anni fa ai poco più di mille di quest’anno, è il momento ideale per trovare soluzioni vere
MITILENE (Isola di Lesbo) –«Moria 2», »New Kara Tepe» (che vuol dire collina nera), «Mavrovouni». Nella perenne incertezza di questo Purgatorio ai confini tra l’Europa e il mondo, ognuno lo chiama come vuole. Tanto a che serve saperlo? Non ne parla più nessuno e nessuno sa esattamente quale sarà il destino delle 4.200 anime che lo abitano, alcune da oltre due anni. Eppure, è il campo profughi che negli ultimi anni ha reso nuovamente famosa Lesbo, isola greca a 7 chilometri dalle coste turche. Tanto da contendere il primato dei migranti sbarcati a Lampedusa, da ricevere la visita di Papa Francesco, da subire un devastante incendio nel settembre scorso, da suscitare il miraggio di una nuova vita a migliaia di uomini e donne del Sud del mondo, negata però tragicamente ai troppi che non ce l’hanno fatta, come il piccolo Alan Kurdi, morto a 3 anni sulla spiaggia della turca Bodrum prima che partisse il suo gommone. Una foto che fece il giro del mondo ma che ormai è archiviata.
Eppure ancora oggi a Lesbo, quasi dimenticato, c’è il più grande campo profughi d’Europa. Chi se ne ricorda nel vecchio continente in questi giorni di Olimpiadi, variante delta e rinascenti litigi politici, in Italia, all’inizio del semestre bianco? Loro sono ancora là, destinati a restarci fino a nuovo ordine: per lo più afghani, la nazionalità più rappresentata, ma anche tanti africani, soprattutto somali, congolesi, togolesi, camerunesi. Tutti provenienti dalla Turchia, le cui coste sono talmente vicine da riconoscere le case quando il cielo è limpido. Siriani? Pochissimi ormai, perché l’accordo con Erdogan ha stabilito che il suo Paese sia per loro un approdo sicuro e quindi vengono bloccati in partenza o rimandati indietro. Dai 20 mila, cifra raggiunta poco più di un anno fa nel vecchio campo di Moria, che ospitava ripari di fortuna in un’enorme distesa di ulivi, si è scesi alla più gestibile cifra di 4.200, tutti censiti, in tende e tendoni (ora numerati) oppure container in cui è arduo sopravvivere quando il termometro segna 40 gradi all’ombra.
Tra i rari amici, che si sono ricordati di loro, i 250 volontari della Comunità di Sant’Egidio, giovani e adulti provenienti da tutta Europa, che da metà luglio alla fine di agosto, hanno scelto di passare qui, a turno e a loro spese, una parte delle vacanze. Hanno montato la Tenda dell’Amicizia, rossa, ben visibile, proprio accanto al campo profughi, dove – grazie ad un accordo con le autorità greche - si invitano afghani e africani a mangiare, finalmente seduti attorno ad un tavolo e dove la mattina i loro bambini possono giocare, studiare e fare altre attività (si chiama «Scuola della Pace») senza essere costretti a sedere per terra fra la polvere e il caldo insopportabile. Poco più in là ci sono altri gazebo dove gli adulti imparano l’inglese, lingua che serve come il pane per il loro futuro. In altre parole si offre dignità, diritto universale che dovrebbe essere garantito sempre e a tutti. Si offre l’Europa.
Invasione di profughi? Difficile ormai sostenerlo: gli ospiti del campo sono un quinto rispetto ad un anno e mezzo fa e la situazione appare, per tanti aspetti, «sotto controllo». I problemi però restano gli stessi. Forse perché si pensa (ma è filosofia europea) che la cosa migliore sia contenere il fenomeno, non gestirlo offrendo risposte adeguate. Si pagano i turchi, si costruiscono nuovi hotspot anche in altre isole greche, con i fondi europei, ma difficilmente si trovano vere soluzioni. Per lo più rinvii o delocalizzazioni di difficoltà, «grane» che è meglio scaricare, a turno e vicendevolmente, su altre autorità o altri Paesi.
E pensare che per l’Europa sarebbe il tempo opportuno per agire: basta sapere che gli sbarchi in Grecia sono scesi dai 50 mila di due anni fa (35 mila solo a Lesbo) ai poco più di mille di quest’anno, l’ideale quindi per trovare risposte a persone che fuggono da guerre o condizioni di vita insostenibili nei loro Paesi di origine. Si preferisce invece restare prigionieri dell’incertezza, dettata da regole che non riescono a sbloccare la situazione.
Una soluzione per un gruppo di loro c’è già stata e resta ancora aperta. Si chiama Corridoi Umanitari, nella versione di una relocation offerta in Italia da Sant’Egidio e avviata, in questo caso, dallo stesso Papa Francesco, che affidò alla Comunità i profughi portati via da Lesbo, direttamente con il suo aereo, alla fine della sua visita, il 16 aprile 2016. Il patto ottenuto recentemente con le autorità italiane è per 300 persone, una via sostenibile perché si basa sull’integrazione: volontariato, società civile che organizza l’ospitalità, iscrizione a scuola dei minori, aiuto per l’inserimento nel mondo del lavoro una volta ottenuto lo status di rifugiato. Il tutto a spese proprie e non a carico dello Stato. Un modello che è riuscito a integrare in Europa - in Italia, Francia, Belgio e Andorra - oltre 3.700 profughi provenienti da aree critiche del mondo come la Siria e il Corno d’Africa. Replicabile, certamente. Ma ci sarebbero anche altre soluzioni, come prevedere ingressi regolari – attualmente, di fatto, inesistenti - in un’Europa che ne avrebbe estremo bisogno anche per la sua economia, nonché per i servizi alla persona: chi si è occupato, se non gli stranieri, dei nostri anziani in questo tragico tempo di pandemia? Non dimenticare Lesbo vuol dire oggi non dimenticare l’Europa.
[ Roberto Zuccolini ]