Grecia, Lesbo, 4.200 profughi bloccati nel campo: il 45% sono minori, non si va a scuola e numerosi sono i tentativi di suicidio

Grecia, Lesbo, 4.200 profughi bloccati nel campo: il 45% sono minori, non si va a scuola e numerosi sono i tentativi di suicidio

LESBO (Grecia) - Sono 4.200 “i bloccati” nelle tende e nei container bianchi di Kara Tepe, il campo profughi più grande d’Europa che sull’isola di Lesbo ha sostituito quello di Moria, andato in fiamme nel settembre 2020. A pochi chilometri si vedono le spiagge turche: quelle su cui le onde, nel 2015, depositarono il corpo senza vita di Aylan Kurdi, 3 anni. È lo stesso mare in cui, ancora lo scorso luglio, sono affogati dei migranti congolesi. A Kara Tepe, tra la disperazione dei profughi e l’odore acre dei bagni chimici, sotto un sole di quaranta gradi, non sembra di essere in Europa. I minori sono il 45% del campo, ma solo pochissimi ragazzini vanno alla scuola vera e propria, una minoranza intercetta qualche corso delle ong. Eppure, qui, tutto è costruito con fondi europei, compreso il filo spinato che circonda il campo. Soprattutto, in migliaia sono bloccati, da anni, per una scelta dell’Unione.

Bloccati dall’accordo Europa-Turchia. Lo racconta il giovane afghano Basir, al terzo rigetto della sua domanda di protezione internazionale: “Sono hazara, vivo a Lesbo da 31 mesi con mia madre e tre fratelli; mio padre è stato ucciso, siamo scappati per salvarci”. Aggiunge: “Guarda qui”, e mi mostra le cicatrici dei tagli sul suo petto. Viene da Ghazni, uno dei distretti in cui in questi giorni è in corso la riconquista dei talebani. La sua domanda di asilo politico è stata rigettata perché il nuovo accordo tra Europa ed Erdogan (dello scorso giugno, al costo di ulteriori 3 miliardi), stabilisce che la Turchia è “un paese sicuro” per i profughi siriani, afghani, somali, pachistani e bengalesi: Frontex e la Guardia costiera greca possono quindi respingere i gommoni e le barche intercettate in mare e, soprattutto, sono bocciate le domande di asilo di chi riesce ad arrivare in Europa passando dall’Anatolia.

Un limbo senza prospettive. Situazioni come quella di Basir sono comuni tra gli afghani, come Ahmad, un tagiko che lavorava per l’esercito americano a Kabul ed è scappato per la paura di rappresaglie quando la presenza degli Usa si è ridotta, o Zeenat, una diciassettenne pashtun che sogna di raggiungere lo zio in Germania. A Kara Tepe si vede il fallimento dello stato afghano e dell’intervento internazionale: da quel paese viene il 45% dei profughi, seguito da somali, siriani e congolesi. Il limbo senza prospettive, però, logora: Zeenat ha un fratello che prende delle gocce antidepressive, uno degli abitanti del container di Basir ha provato a togliersi la vita, i tentativi di suicidio riguardano anche minorenni. Ahmad è seguito da uno psicologo di un’associazione: “Quando lo chiamo, mi dice sempre di attendere perché ha molte richieste. Ha ragione, ha tantissimi pazienti del campo, dove il ‘mental stress’ si diffonde”.

L'inerzia colpevole dell'Europa sui migranti. Un “limbo” che è conseguenza dell’inerzia europea sui migranti. Nel 2015 l’Ue fece costruire Moria prevedendo che nell’hotspot i migranti rimanessero solo pochi giorni, per essere identificati e trasferiti in altri paesi dell’Unione attraverso i ricollocamenti; un anno dopo quel programma fu sospeso e nel 2019 il campo è arrivato a 22mila persone, molte delle quali sono riuscite a scappare dall’isola dopo l’incendio del 2020. Ancora oggi, i segni delle ustioni alle braccia e al collo risaltano con forza sulla carnagione scura di Zeenat. Il numero attuale dei profughi si ferma a 4.200, perché gli arrivi nelle isole greche del primo semestre 2021 sono stati solo 1.316 (1.098 a Lesbo), mentre nel 2019 erano 59.726. In quell’anno Erdogan voleva mostrare il proprio potere ricattatorio verso l’Unione, chiudendo gli occhi sulle partenze. Ora invece, grazie al  nuovo accordo, collabora: blocca le partenze, riaccoglie nei porti anatolici i gommoni intercettati in mare, addirittura sono stati segnalati dei rinvii dopo pochi giorni di permanenza, senza la possibilità di chiedere l’asilo.

La Grecia “scudo d’Europa”. Intanto, anche se gli arrivi sono di molto diminuiti, la Grecia continua a spendere fondi europei per costruire centri sulle isole e sulla terraferma, che ad oggi ospitano centomila richiedenti asilo. A Samo ne aprirà uno da 3.200 posti, a Chio uno che ospiterà tra 1.800 e 3.000 profughi. L’Ue ha investito 276 milioni di euro per quelli che l’Europa definisce “centri di prima accoglienza polifunzionali”, il Ministero ellenico dell’immigrazione “strutture controllate chiuse”. Da Kara Tepe ciascun profugo può uscire solo a orari e giorni precisi e la domenica il campo è chiuso. “Sono qui da due anni – dice Jemila, somala, una delle tante donne sole che abitano al campo – Non riesco più a dormire e la notte, lavarsi e andare in bagno è spesso impossibile”.

L’altra Europa di Sant’Egidio. Almeno un giorno alla settimana Jemila mangia del “cibo buono” alla Tenda dell’Amicizia, dove 250 volontari della Comunità di Sant’Egidio si alternano nei mesi estivi. Qui, dal lunedì al venerdì, al pomeriggio vengono allestite tavolate per 450 pasti, finalmente all’ombra. Al mattino invece si svolgono il corso di inglese per gli adulti e la Scuola della Pace per i bambini. Colpisce un dettaglio: i bambini più piccoli, cresciuti nel campo, non sanno neppure come si mangiano le caramelle, non le sanno scartare e mettono in bocca anche la carta. Tra i bambini che giocano sotto le tende rosse, il piccolo Laurent del Congo non ha più tre falangi delle mani: “Per vendette tra milizie, lui è stato così colpito e mia moglie è stata violentata”, dice il padre. In compenso la famiglia ha già avuto due rigetti all’asilo. Lo stesso numero di Alì di Aleppo, che è analfabeta e non sa scrivere neppure in arabo: è nato sedici anni fa, ma dal 2011 la Siria è in guerra, e quindi a scuola non è mai potuto andare. Sempre la Comunità organizza anche delle distribuzioni alimentari e, nei week-end, delle gite per i profughi che non risiedono fuori del campo e si trovano in altri punti dell’isola.

Un’indifferenza pericolosa. Spiegano da Sant’Egidio: “Anche quest’estate, come le precedenti, siamo a Lesbo perché non vogliamo chiudere gli occhi. Vogliamo testimoniare un’Europa diversa da quella che respinge o costringe a restare per anni nel campo, senza trovare soluzioni”. La Comunità ha aperto da 5 anni i corridoi umanitari che salvano dai trafficanti di uomini: finora hanno garantito un percorso di integrazione in Europa ad oltre 3.700 profughi che stazionavano in Libano e in Etiopia, una piccola parte a Lesbo. Intanto, alla Tenda dell’Amicizia, ai giovani portoghesi, spagnoli, italiani, polacchi, ungheresi, olandesi, belgi, tedeschi si aggiungono alcuni ragazzi migranti che traducono e facilitano le attività in corso. “È un’amicizia che ci apre alla speranza: ci fa capire che l’Europa non è solo la vita che si svolge nel campo”, dice Abdul, siriano al terzo rigetto, cercando di non guardare in direzione del filo spinato.


[ Stefano Pasta ]