Dawood e gli altri «Siamo stati accolti, adesso tocca a noi»

Dawood e gli altri «Siamo stati accolti, adesso tocca a noi»

«Ho un debito nei confronti di chi oggi è disperato: alla Comunità di Sant'Egidio ho imparato ad aiutare gli altri, quando, appena arrivato in Italia, mi hanno insegnato con l'esempio cosa significhi non pensare solo a sé. Ora devo e voglio restituire quanto ricevuto»

«Ho un debito nei confronti di chi oggi è disperato: alla Comunità di Sant'Egidio ho imparato ad aiutare gli altri, quando, appena arrivato in Italia, mi hanno insegnato con l'esempio cosa significhi non pensare solo a sé. Ora devo e voglio restituire quanto ricevuto»


Per fuggire dalle persecuzioni in patria, Qorbanali Esmaeli, 46 anni, nel 1999 è venuto in Italia: riconosciuto come rifugiato, è poi diventato cittadino italiano e ha fondato un'associazione per seguire, con una clinica ginecologica a Kabul attivata con fondi europei, molte donne afghane. In questi giorni, oltre alla sua famiglia, è riuscito a portare in Italia l'anziano padre e diversi connazionali, tra cui infermieri e medici della clinica.
Ma a Fiumicino, ad accogliere i gruppi sbarcati alla spicciolata dai voli militari, c'era anche Dawood. Di etnia azara, parla un italiano-romanesco, ma in questi giorni, giocando con i più piccoli, usa la loro lingua. Rivede la sua infanzia e i suoi primi 17 anni: la fuga sulle montagne, la perdita della famiglia, l'odissea attraverso l'Iran, la traversata in mare, i compagni annegati, l'ultimo tratto sotto la pancia di un camion.
Con la famiglia di Sant'Egidio vive a Roma, fa il mediatore culturale in una scuola: «Con la Comunità siamo una famiglia, aiutiamo da anni i profughi che giungono in Italia, perché il futuro dell'Europa è nell'aprirsi al mondo e nell'integrazione. Una sfida a cui partecipo volentieri». E infatti Dawood è in prima linea nel progetto dei corridoi umanitari attivati, dopo il Libano e l'Etiopia (oltre 3.700 persone giunte dal febbraio 2016), anche da Lesbo, da quell'isola che «trattiene» ancora tantissimi afghani con domanda di asilo politico.
In Italia da pochi mesi, con il sistema di accoglienza, ma anche inserimento socio-culturale e linguistico, c'è anche la famiglia di Nour, impegnata a fronteggiare questa emergenza: «Soffriamo per chi è prigioniero nel nostro Paese. D'altra parte, dobbiamo fare qualcosa subito per chi è tra noi e ha perso tutto. Ci è stata donata una nuova vita ed ora dobbiamo spenderla al meglio. Il futuro dell'Afghanistan è a Kabul, ma anche a Roma. II futuro è ovunque ci sia pace».
Da almeno 20 anni la Comunità di Sant'Egidio accoglie afghani: tanti hanno transitato qui, tantissimi hanno studiato e imparato la nostra lingua in queste scuole. «Ad agosto molti di loro ci hanno chiesto aiuto per le loro famiglie. Immediatamente abbiamo contattato il Ministero degli Esteri e della Difesa, per inserirci nel percorso delle evacuazioni, e raccolto nomi, indirizzi e recapiti di parenti di afgani già stabilmente in Italia», ricorda Daniela Pompei, Responsabile Immigrazione e Integrazione della Comunità di Sant'Egidio. L'evacuazione, tuttavia, ha riguardato anche personale e funzionari italiani: «Ci ha contattato la Fondazione Veronesi, perché li aiutassimo a mettere in salvo il loro personale infermieristico e medico in Afghanistan: anche in questo caso, ci siamo attivati con la Farnesina, come per tutti gli afghani che ci scrivevano da ogni parte d'Italia. Oltre 100 persone - conclude Pompei - sono riuscite ad arrivare grazie alle nostre segnalazioni. Tanti nuclei familiari si sono dispersi tra i paesi limitrofi l'Afghanistan: ora si tratterà di ricomporre famiglie e affetti attraverso i corridoi umanitari».

 


[ C. Si. ]