Martini sapeva camminare con l'altro. La storia dell'amicizia con Sant'Egidio

Nel libro "La parola e i poveri" di Roberto Zuccolini, presentato oggi a Genova, il legame tra il Cardinale e la Comunità
Su gentile concessione di San Paolo Edizioni, pubblichiamo parte della prefazione di Andrea Riccardi del libro "La Parola e i poveri. Storia di un'amicizia cristiana" di Roberto Zuccolini, dedicato al rapporto tra Carlo Maria Martini e la Comunità di Sant'Egidio.

Questo libro narra la storia di un'amicizia: quella tra il cardinal Martini e la Comunità di Sant'Egidio. Un'amicizia nata negli anni Settanta e durata fino alla sua morte, nel 2012. Leggendolo, mi sono affiorati tanti ricordi, soprattutto le costanti conversazioni sulla vita della Chiesa, i problemi della società, gli orizzonti del mondo.
Martini, che esteriormente poteva apparire anche freddo, era in realtà un uomo molto fedele nei rapporti, capace di partecipare intensamente alla vita degli amici. Anche negli anni in cui era divenuto una personalità molto nota e un riferimento per tanti, dentro e fuori la Chiesa, l'arcivescovo di Milano era un amico semplice e sincero, anche se pressato da impegni e problematiche, non solo relative al suo governo diocesano, ma anche agli ambienti e alle persone con cui veniva a contatto. Riservato, il cardinale non si imponeva: curioso di conoscere, chiedeva molto e amava ascoltare.
E' stato sempre un uomo dell'ascolto, perché forgiato dall'ascolto della Parola di Dio, ma anche dall'attenzione alla vita e al mondo, convinto di avere sempre da imparare molto. Era uomo carico di interrogativi sulla realtà, ed era certo di non poterli risolvere da solo e di avere bisogno dell'aiuto di tutti, anche di coloro che erano estranei al suo sentire. L'ascolto — lo si percepiva chiaramente — lo toccava in profondità e, in qualche misura, lo cambiava; ma poi operava sempre una sintesi personale che, spesso, esprimeva un punto di vista originale rispetto a quelli correnti.
Rispettoso, piuttosto silenzioso, quando discuteva o interveniva rivelava una personalità riflessiva, con idee chiare e punti di vista ben delineati. Il suo non era mai un pensiero chiuso, che si trasformava in sistema. Era un pensare biblico — se così posso dire —, non nel senso di un discorso infarcito di citazioni dalle Scritture, ma fondato sulla Parola di Dio e da essa formato. «Non pensare in modo biblico ci rende limitati, ci impone paraocchi...», confida a Georg Sporschill. Questo, al di là della sua vicenda personale, resta un grande contributo al pensiero e alla cultura della Chiesa dopo il Vaticano II. Un pensiero biblico, non chiuso, aperto agli altri, alla vita e alla storia.
La conversazione rappresentava, per lui, un tempo per imparare, non uno spazio per affermarsi o, ancor meno, per esibirsi. Il rispetto della parola era vivo nel cardinale, non solo per quella altrui (che prendeva in considerazione con attenzione e senza pregiudizio), ma anche per la sua stessa parola, mai eccessiva ed esagerata, pensata, non retorica o invasiva. Ascoltava molto e parlava misuratamente. Questo atteggiamento è rimasto immutato negli anni (anche quando aveva acquisito maggiore sicurezza in virtù del suo ruolo, non solo ecclesiastico, ma direi civile e culturale) e mi faceva pensare a quanto il cardinale avesse personalmente interiorizzato la figura del discepolo, misurando il valore della parola in ogni situazione e divenendo un uomo dell'ascolto permanente in tutte le direzioni.
Mi ha sempre colpito (lo dico avendolo conosciuto quando avevo meno di venticinque anni) la sua semplicità nel dichiararsi "ignorante" di tante cose della vita, accompagnata dalla sua volontà di sapere. Le persone e il mondo non erano un qualcosa che si poteva classificare o chiudere in un sistema o in un'interpretazione ideologica, bensì un fluire continuo e diversificato, che andava colto. Questo non vuol dire che non fosse critico, talvolta ipercritico, ma sempre con dolcezza e con la disponibilità a cambiare idea di fronte alle ragioni altrui o a nuovi fatti della vita.
Negli anni, proprio in virtù di questa capacità di ascolto, ho visto il cardinale non solo divenire un "maestro" nella Chiesa, ben al di là della sua diocesi, ma crescere in "esperienza di umanità" (per usare un'espressione di Paolo VI) e nella conoscenza del mondo. Con molta acutezza mons. Bruno Forte, che gli è stato tanto vicino, ha osservato: «L'atteggiamento ignaziano della "riverenza" fondava anche il modo in cui Martini si poneva nei confronti della cosiddetta cultura "laica", dei non credenti e di tutti i possibili cercatori di Dio: egli sapeva accogliere ed ascoltare tutti, non imporsi a nessuno. La certezza che il dono della rivelazione divina è destinato a ogni uomo e a tutto l'uomo spingeva Martini a cercare vie d'incontro, di dialogo e di reciproca comprensione con tutti.
Ascoltando le ragioni dell'altro, egli sapeva crescere nella consapevolezza del dono di credere e riusciva a camminare con l'altro senza forzature né compromessi, sui sentieri dell'obbedienza alla verità». Era diventato capace di un respiro largo e profondo: un uomo che sapeva aprire gli ambienti diocesani a una dimensione universale. Il gusto del viaggio, proprio da arcivescovo, era l'espressione della sua tenace volontà di "imparare il mondo" e di non chiudersi nel quadrato, per quanto ampio, delle problematiche diocesane o italiane. Si ritagliava viaggi fuori dall'Europa e diceva che per lui rappresentavano esperienze uniche, quasi una lettura della storia e della vita, fatta incontrando gente diversa. Anche nelle conversazioni amichevoli indugiava spesso nel chiedere informazioni su l'uno o l'altro paese. C'era, in lui, un gusto per la geografia umana e per gli incontri. Quasi un'aspirazione a superare frontiere limitate e ad andare verso una dimensione più vasta. Il suo era un approccio sempre caratterizzato da amicizia e ospitalità.
Roberto Zuccolini, autore di questo volume, ricorda l'incontro con il gran muftì di Siria, Ahmed Kaftaro, che Martini ricevette nel 1985, nel palazzo arcivescovile con grande attenzione e quasi solennità. Cominciava in quel periodo la sua conoscenza dell'islam che il cardinale avrebbe poi sentito come una realtà con cui si dovevano fare i conti con serietà, sia per quel che riguarda gli immigrati che nel dialogo interreligioso. In quest'ultimo, per certi aspetti, Martini superava la visione degli orientalisti cattolici, che avevano avuto un grande ruolo nei lavori del Concilio Vaticano II e avevano portato all'elaborazione della Dichiarazione Nostra Aetate sulle religioni non cristiane e all'apertura del dialogo con l'islam. 


[ Andrea Riccardi ]