Dall'inferno della Libia

«Vengo dall'inferno della Libia»: con la voce rotta dalla commozione Meskerem, eritrea rifugiata in Italia grazie ai Corridoi umanitari, si è presentata a Papa Francesco, che ha potuto ascoltare il suo grido di dolore grazie alla immediata traduzione di una giovane interprete. Poi, accompagnata dal marito e dalla figlia, gli ha consegnato alcuni fogli sui quali è riassunta la sua storia di dolore: dalla fuga dalla propria patria insieme con la sorella, poi dispersa, alla drammatica esperienza nei lager libici durata circa dieci anni. Lì, nei campi di prigionia chiamati Ghem ghem bari ("prima del mare") è stata vittima di sfruttamento e violenze, ma vi ha anche conosciuto e sposato il suo Suleiman e dato alla luce la bambina che oggi, in completo di jeans, sorrideva felice accanto a Francesco.
Dopo di lei Anna, originaria di Aleppo, ha raccontato la sua fuga dalla guerra in Siria nel 2016. Col marito si è rifugiata in Libano fino al 2020, quando l'esplosione nel porto di Beirut li ha lasciati un'altra volta senza casa. «Ci siamo messi a cercare. Abbiamo sentito parlare dei corridoi umanitari, ci sembrava un sogno: la possibilità di vivere in pace, tranquillità, lavorare e impegnarci nella società, la possibilità per Pamela», la loro figlia, «di vivere una vita "normale"».
Oltre alle storie di chi è stato accolto, tra i cinquemila presenti nell'Aula Paolo vi hanno portato la loro testimonianza anche quanti hanno offerto ospitalità aprendo le porte di casa. Come Mattia, venuto da Castelfidardo, nelle Marche. Su iniziativa del suocero, nel 2018, accolsero una famiglia siriana fuggita dalle bombe e dalla distruzione di Homs.

I corridoi umanitari «sono nati dalla memoria dolorosa delle morti in mare, sono nati dal pianto e dalla preghiera. La preghiera e il dolore ci hanno aiutato a non rassegnarci: a riflettere, a lottare per costruire una via alternativa ai barconi... costretto quasi a quella creatività nell'amore di cui lei Santo Padre tante volte ha parlato». Così Daniela Pompei, responsabile della Comunità di Sant'Egidio per i servizi ai migranti, aveva aperto l'udienza, parlando anche a nome del fondatore Andrea Riccardi e del presidente Marco Impagliazzo. Ricordando la nascita di questa iniziativa di accoglienza, l'ha definita «un'altra via possibile oltre a quella disperata dei viaggi in mare».
In particolare furono due tragedie avvenute rispettivamente il 3 ottobre 2013, con 386 vittime a poche miglia da Lampedusa, e il 18 aprile 2015, con oltre 900 morti nel Canale di Sicilia, il più grave naufragio avvenuto nel Mediterraneo dopo la seconda guerra mondiale - che diedero il "la" all'apertura di un "varco" nel Mare nostrum. Perciò il 15 dicembre 2015 la Sant'Egidio, con le Chiese protestanti italiane e in accordo con i ministeri dell'Interno e degli Esteri, firmò il protocollo per l'apertura dei primi corridoi umanitari: 1.000 visti per altrettanti profughi siriani dai campi del Libano.
Fece seguito un protocollo, sempre di Sant'Egidio con la Conferenza episcopale italiana, per 500 profughi dell'Africa subsahariana dai campi dell'Etiopia. Intento primario era quello di evitare i viaggi con i barconi della morte e contrastare il business degli scafisti e dei trafficanti di esseri umani. Dal febbraio 2016, poi, i corridoi umanitari hanno permesso, con un sistema totalmente autofinanziato dalla società civile, a oltre seimila persone di raggiungere l'Europa in sicurezza. I Paesi di origine dei rifugiati più rappresentati sono Siria, Eritrea, Afghanistan, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Iraq, Yemen, Congo, Camerun. E poi, nell'ultimo anno, quelli dall'Ucraina. L'Italia è stata la nazione che ne ha accolti di più con oltre l'87%, ben 5.248 persone. Il modello è stato replicato in Belgio, Francia, e, in numero più esiguo, ad Andorra e San Marino.
Ha preso poi la parola Daniele Garrone, presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei), che ha sottolineato la dimensione ecumenica dei corridoi umanitari, affermando che «tutti e tutte siamo raggiunti dalla stessa Parola di Dio, che ci dona speranza e ci chiama al servizio del prossimo». E il prossimo, in questi casi, sono persone che portano «dentro di sé e spesso sul proprio corpo» storie drammatiche e, ha aggiunto, «la condivisione del pianto deve muovere "a praticare la giustizia": i corridoi umanitari sono uno dei modi per cercare di rispondere a questo appello».
E lo stesso Papa Francesco ha voluto rilanciare questa dimensione ecumenica, invitando i presenti a pregare insieme, ciascuno nella propria lingua, il "Padre nostro".