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18 Septiembre 2016 10:30 | Basilica Superiore di San Francesco

Omelia di Mons. Domenico Sorrentino alla Celebrazione eucaristica di Assisi



Domenico Sorrentino


Arzobisopo-Obispo de Asís, Italia
 
 
Il messaggio sulla ricchezza, che emerge dalla Parola di Dio appena ascoltata, ci raggiunge in questo luogo dove tutto parla di Francesco di Assisi, che di questo messaggio è uno dei più grandi testimoni.
 
Brucianti le parole con cui il profeta Amos sferza l’avidità insaziabile che produce lo sterminio dei poveri. Mentre il ricco si rode nella sua voglia di accumulare, attendendo con ansia l’alba per poter ricominciare a guadagnare con false bilance e sognando di vendere anche lo scarto del grano, i poveri sono comprati per un paio di sandali. 
È la condizione in cui versa ancora il nostro mondo, dove un pugno di possidenti si è accaparrata la massima parte dei beni e uno smisurato esercito di poveri è privo del necessario.
 
Agli schiavisti di tutti i tempi il Signore annuncia il suo giudizio: egli non dimenticherà! È un discorso che riguarda l’etica della giustizia e della solidarietà, ma prima ancora è rivelazione del volto di Dio. 
Da che parte sta Dio? 
Non c’è dubbio: dalla parte dei poveri. È lì, dunque, nello spazio dei poveri che bisogna portarsi, per poterlo incontrare. 
I libri biblici sono percorsi da questo fremito di giustizia. Progressivamente la rivelazione fa luce sul senso della ricchezza. Essa appariva, in un primo tempo, come espressione della benevolenza di Dio, al punto che l’essere ricco fosse automaticamente segno di benedizione. Si era ancora lontani dalla beatitudine evangelica della povertà. 
C’era comunque un’anima di verità, in quell’antica concezione, e cioè la consapevolezza che tutti i beni vengono da Dio, sono un dono suo, perché l’uomo, da sé, nulla possiede. Giobbe scolpisce questo principio: «Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò” (Gb 1,21). Questa condizione di nudità è propria di ogni essere umano. Francesco di Assisi volle ritornarvi per libera scelta, quando al padre avido restituì non solo il denaro ma anche i vestiti. Solo con la consapevolezza di questa nudità possiamo sentire la bellezza del dono di Dio. Solo con questa profonda coscienza della condizione umana possiamo anche aprirci alla sofferenza dei fratelli. 
 
Gesù ci fa tornare su questa problematica con la parabola dell’amministratore disonesto. Un amministratore paradossalmente lodato per la furbizia con cui provvede alla sua sopravvivenza quando arriva l’ora della disgrazia, facendosi amici con la frode i debitori del suo padrone.
Qual è dunque l’atteggiamento che dobbiamo coltivare nei confronti della ricchezza?
Gesù enuncia un principio di incompatibilità: non si possono servire due padroni. Amare Dio, ponendolo al centro della propria vita, è incompatibile con un cuore che fa del denaro il proprio idolo. Vale per i beni materiali, ma anche per quegli attaccamenti invisibili del cuore che sono i nostri idoli nascosti. Dio non può avere concorrenti. Dio è Dio! 
 
Il discorso della parabola va oltre, nella direzione della carità. Non basta liberarsi dalla schiavitù del denaro. Occorre farlo in vista di un mondo giusto e fraterno. Usando una tecnica di persuasione di tipo sapienziale, Gesù ci consegna questo dovere facendo appello anche alla sua ragionevolezza: far del bene ci fa bene! Abbiamo infatti tutti bisogno gli uni degli altri. Avremo infine bisogno che qualche fratello ci accompagni alla presenza di Dio, al momento della nostra morte, quando ognuno di noi, ormai privo delle illusioni di questa terra, porterà al suo cospetto la sua nudità e il suo peccato. Dio ascolterà a nostro favore la supplica dei poveri che abbiamo amato e servito. I poveri saranno i nostri giudici o i nostri avvocati. 
È un ragionamento che ha il sapore di una minaccia, ma soprattutto quello di un incoraggiamento. Come se Gesù ci dicesse: coraggio! Provate ad amare! Oltre tutto, vi conviene… 
 
E di sicuro conviene costruire un mondo di fraternità e di pace. Abbiamo ascoltato a tal proposito le parole di Paolo incardinate sul disegno di Dio, il quale vuole “che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità”. Parole garantite dall’altra grande verità: per salvarci Dio ha messo in gioco il suo figlio Gesù, “l’unico mediatore tra Dio e gli uomini”, “che ha dato se stesso in riscatto per tutti”. 
 
Il nostro ritrovarci in Assisi in nome della pace non mette in parentesi questa verità, anzi poggia su di essa. Una verità da vivere e da annunciare. Una verità che si fa preghiera. Belle, a tal proposito, le parole che abbiano ascoltato nella prima lettera a Timoteo: “Ti raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità”. 
San Giovanni Paolo II intuì, trent’anni fa, con l’iniziativa dello “spirito di Assisi”, che, per costruire la pace, bisogna far leva proprio sulla forza della preghiera. Una preghiera indirizzata a Dio che è amore e pace, e dunque fatta nell’amore e nella pace, come l’Apostolo ci ha ricordato: “Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese”. 
Sia questo lo “spirito di Assisi” che viviamo in questi giorni, alla scuola di Gesù e del suo servo Francesco, in cordiale dialogo con tanti credenti, pur di diversa ispirazione, in preghiera con noi. 

 

#peaceispossible #thirstforpeace
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