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30 Septembre 2013 16:30 | Maison de Dante

Dio ama i poveri



Eugenio Bernardini


Pasteur, Modérateur du Conseil Valdese, Italie
«Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Mt. 19,21). Nel noto racconto del Vangelo di Matteo fu questa la risposta lapidaria di Gesù al giovane ricco che cercava la strada della vita eterna. Una risposta scomoda e difficile da accettare, al punto che il giovane ricco, udite queste parole, “se ne andò triste”.
 
Proprio queste parole di Gesù – “vendi quello che possiedi, dallo ai poveri” – furono alla base della conversione di Valdo (o Valdesio) di Lione che nel 1174, diversamente dal giovane ricco, nel momento della sua crisi esistenziale decise di farsi povero e, più avanti, di iniziare un movimento di riforma religiosa e spirituale che aveva nella povertà uno dei suoi tratti dominanti. 
 
Erano i “poveri di Cristo” i quali, appena estesero il loro apostolato fuori le mura della città, furono chiamati “i poveri di Lione”. Erano una piccola comunità di fede che rivendicava un rapporto diretto con le Scritture e che dava un’interpretazione impegnativa del messaggio evangelico della povertà: “Nudi nudum Christum sequentes”, come si leggeva nelle cronache, anche giudiziarie, del tempo; nudi, come il Cristo che intendevano seguire con lo spirito e con il corpo, dando così concretezza e coerenza alla loro fede.
 
È appena il caso di sottolineare l’analogia con Francesco d’Assisi con il quale Valdo condivise la pratica della povertà e l’idea che essa fosse al cuore della vita e della testimonianza cristiana. Gli esiti diversi delle loro vicende – una interna alla Chiesa d’Occidente, l’altra all’origine di un movimento che invece subirà dure persecuzioni e che nel 1532 confluirà nella Riforma protestante – non possono relativizzare il dato di questa affinità spirituale che, anche se i due mai si incontrarono, ha i tratti ideali di una relazione ecumenica ante litteram.
 
Oggi viviamo in tempi diversi e, anche per noi valdesi, la povertà di Valdo costituisce una sfida al nostro modo di essere e di vivere. Anche per noi, oggi, risuona forte e provocatoria la seguente domanda: che cosa significa e che cosa implica affermare che “Dio ama i poveri”? Non è una domanda facile neanche per una chiesa piccola e povera come quella valdese, che ha deciso di continuare a finanziare il costo dei pastori, del culto e dell’evangelizzazione con le libere offerte di fedeli e amici e non con i fondi dell’Otto per mille e che comunque dispone di templi, biblioteche, istituzioni e centri culturali… 
 
“Dio ama i poveri” significa che Egli guarda a loro con un occhio particolare, che nei poveri vede l’espressione più autentica del suo figlio Gesù: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli –  dice Gesù – l’avete fatto a me” (Mt. 25,40), e questi “fratelli più piccoli” sono coloro che hanno fame e sete, coloro che girano nudi perché non hanno niente da indossare, gli stranieri, i malati e i carcerati. 
Coloro che Dio ama, allora, non sono solo quelli che hanno di meno ma anche quelli che noi meno consideriamo, che hanno meno diritti e che meno riescono a far sentire la loro voce.
Poveri, oggi, sono gli immigrati ai quali non riconosciamo diritti fondamentali come quello di vivere con i propri figli anche dopo che questi hanno compiuto 18 anni; poveri sono quelli che chiamiamo “clandestini” e che abbiamo provato a respingere quando arrivavano stremati sulle nostre coste; poveri sono quelli che neanche vediamo perché muoiono nel doppiofondo o nella stiva di un tir; poveri sono quei rom cacciati che vengono cacciati dai loro campi o che vengono tenuti alla larga dalle nostre vie più eleganti.
Dio guarda al mondo con i loro occhi, con le loro speranze e le loro paure. 
 
Dio ama i poveri, non ama la povertà intesa come privazione e miseria. Già nelle profezie bibliche, Egli mostra di avere a cuore la vita e il giusto benessere dei suoi figli: “Avrai la pioggia per la semenza – afferma Isaia – con cui avrai seminato il suolo, e il pane, che il suolo produrrà saporito e abbondante; in quel giorno, il tuo bestiame pascolerà in vasti pascoli” (Isaia 30,23). Certo è un benessere figlio della benedizione e del lavoro, un benessere sobrio e sostenibile. 
La visione che, in Gesù, Dio consegna all’umanità è un sogno anche di giustizia nel quale Egli “rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote” (Luca 1,52-53); benedice i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli, gli afflitti perché saranno consolati, i miti perché erediteranno la terra, quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,3-6).
È il “ribaltamento dei destini”, come direbbe mons. Gianfranco Ravasi: “i poveri che ottengono un regno, gli affamati che diventano sazi, i sofferenti che sorridono, i perseguitati glorificati – è una delle leggi che la Bibbia proclama: il giudizio divino capovolge i canoni di questa folle storia umana”(Avvenire  del 3/10/2010 che riprende un testo contenuto in 150 risposte ai perché di chi crede e non crede, Mondadori 2010). È un’immagine del regno di Dio nel cui orizzonte si afferma una logica opposta a quella delle scalate in Borsa o delle speculazioni finanziarie. Dio non consolida i patrimoni, al contrario li relativizza e addirittura li azzera in una logica giubilare di remissione dei debiti e di restituzione dei beni (Levitico 25).
Dio ama i poveri e chiama alla giustizia. “Dio non renderà dunque giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a lui? – si chiede il Vangelo di Luca – Tarderà nei loro confronti?” (Luca 18,7). No, il Dio d’Israele che parla anche a noi cristiani è un Dio di giustizia che chiede anche a noi di essere parte del suo piano di salvezza. Amare i poveri non significa contemplarli nella loro condizione di sofferenza o celebrare la loro capacità di far fronte alle difficoltà di una vita di stenti. 
Amare i poveri significa essere operatori di giustizia, levare la voce quando la giustizia è calpestata: sulle coste di Lampedusa, nelle sabbie del Medio Oriente, nella baraccopoli di Korogocho (Nairobi, Kenia), tra i seringueros dell’ Amazzonia o  nel campo rom vicino a casa nostra.  
Pochi giorni fa ricorrevano i 50 anni del celebre discorso I have a dream, parole  di un moderno profeta dell’Evangelo che sognava un mondo libero dal razzismo e dal pregiudizio razziale. E allora vale la pena ricordare che cinque anni dopo quel discorso, Martin Luther King fu ucciso mentre organizzava una nuova marcia a Washington, del tutto analoga a quella che gli fruttò l’attenzione di milioni di americani e che scosse la loro coscienza sino ad allora insensibile alla violenza della segregazione razziale e dell’esclusione dai diritti civili per venti milioni di afroamericani. Bene, questa seconda marcia era stata ideata per combattere la povertà di milioni di americani – bianchi e neri – che nessuno voleva vedere né sentire, contro lo scandalo di un paese che investiva di più nel sistema militare industriale che nell’educazioni dei propri figli.
Dio ama i poveri e ci chiama a una conversione.  Viviamo in un tempo in cui enormi ricchezze invece di distribuirsi si concentrano in alcuni stati, in alcune classi e in alcuni individui. Il paradosso è che la crisi mondiale ancora in corso ha rafforzato questa sperequazione e ha reso i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. La domanda è: dove siamo noi? dove sono le nostre chiese? dove si alza la nostra voce di cristiani? quanto incide nel dibattito pubblico? Qualcuno ritiene che queste domande siano improprie perché una chiesa non è un partito né un governo: essa deve predicare l’Evangelo e non deve preoccuparsi dei bilanci degli Stati o delle oscillazioni dello spread. È vero, il nostro compito è di annunciare l’Evangelo ma è proprio l’Evangelo a ricordarci che “quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me”. Ogni frontiera chiusa, ogni ricovero negato, ogni mensa chiusa, ogni posto letto abolito, ogni speculazione sul pane o sull’acqua è un’offesa all’amore di Dio.
Il dato che vorrei richiamare è che queste offese non sono solo il frutto di un peccato individuale ma sono il portato di un sistema complessivo che mette il profitto al posto dell’uomo e della sua dignità, che idolatra il guadagno e la ricchezza. Amare i poveri significa denunciare questa idolatria, questo vitello d’oro che sta nella coscienza di tutti noi, cambiare strada e cambiare mentalità – metànoia – insomma convertirsi. Convertirsi alla sobrietà, all’essenzialità, alla solidarietà, fiduciosi che il Signore ci soccorrerà e ci aiuterà nei nostri bisogni.
In questo senso vorrei dire che Dio ama i poveri e ci chiama all’ecumenismo della giustizia, a una nuova diaconia sociale che tutti noi qui oggi raccolti – protestanti, cattolici e ortodossi – possiamo vivere insieme. In fondo, credo sia questo il senso di un incontro come il nostro: aprire nuove strade di impegno a servizio dell’umanità. Possiamo metterci con fiducia su questa strada? Rispondo con convinzione di sì: per la promessa che abbiamo ricevuto, per la testimonianza che siamo chiamati a rendere anche in questo tempo.
 

 

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