Quale accoglienza? Il metodo «adottivo» che emerge da Assisi

Inclusione

La accoglienza dei migranti è stata al centro dell'incontro di Papa Francesco ad Assisi. La «sete della pace» che è stato il grande filo conduttore delle giornate ha voluto toccare da vicino quello che i sociologi definiscono un fenomeno, mentre per i giornali è un'emergenza. In realtà entrambe le definizioni sono calzanti, ma se visti da direzione sud, dalla banchina del porto di Reggio, quegli sbarchi sono storie che in questo dossier proviamo a raccontarvi. Storie di minori costretti a dormire sugli scaloni in cemento armato di una palestra abbandonata, storie di bambine sul cui destino qualcuno ha deciso di gettarle per strada a mercificare, contro la loro volontà, il loro corpo. Eppure, seppur dalla trincea non si intravede un impegno comune massiccio nell'affrontare questo drammatico andirivieni nel Mediterraneo delle zattere della disperazione, c'è un movimento culturale cospicuo alla base di un rinnovato concetto di accoglienza come policy essenziale per le «nuove» città.
«Si discute molto di modelli per l'accoglienza dei migranti in Europa: credo che il modello italiano di inclusione nei confronti degli immigrati possa essere definito adottivo - ha affermato Daniela Pompei, responsabile per l'immigrazione della comunità di Sant'Egidio e tra i realizzatori dei corridoi umanitari nel panel dedicato a "Migranti e integrazione"- Come comunità di Sant'Egidio abbiamo potuto sperimentare in questo anno l'accoglienza con i corridoi umanitari. Tanti, singoli, famiglie, associazioni, imprenditori, parrocchie ci hanno contattato per offrire accoglienza, case, sostegno umano. L'integrazione può riuscire bene se c'è la società civile che la sostiene».
Un tema, quello di un'azione inclusiva, adottiva come ben apostrofata dalla comunità di Sant'Egidio, che trovano eco anche nelle parole di Markus Drtige, vescovo tedesco evangelico: «Vengo dalla Germania, dalla capitale Berlino, una città che ha avuto l'esperienza della caduta del Muro quasi 27 anni fa. Conosciamo il filo spinato . Siamo grati che la Porta di Brandeburgo sia stata aperta: è diventata un simbolo di libertà; «il mondo è a casa» nella nostra città, come usiamo dire. Dall'anno scorso, siamo stati pronti ad aiutare i rifugiati che sono venuti nel nostro paese», spiega.
«Ora - ha detto all'assemblea il filosofo polacco, Zygmunt Bauman - c'è la necessità ineludibile dell'espansione del noi come prossima tappa dell'umanità. Questo salto successivo è rappresentato dalla soppressione del pronome loro. Non ci è stato chiesto da nessuno ma ci troviamo nella dimensione cosmopolita in cui ogni cosa ha un impatto sul pianeta, sul futuro e sui nipoti dei nostri nipoti. Siamo tutti dipendenti gli uni dagli altri». Una cultura cosmopolita che prevede, dunque, un'integrazione che superi la mera gestione dell'emergenza legata agli sbarchi, come - invece - accade dalle nostre latitudini euromediterranee. «Dialogo, una parola che non dovremo mai stancarci di ripetere. C'è bisogno di promuovere una cultura del dialogo, in ogni modo possibile e ricostruire così il tessuto della società. Dobbiamo considerare gli altri, - ha concluso Bauman - gli stranieri quelli che appartengono a culture diverse, persone degne di essere ascoltate» (fed.min.)


[ fed. min. ]