"Gesù ci prepara il posto per il Suo e nostro Natale. E noi siamo personaggi della sua storia di salvezza." L'omelia del card. José Tolentino de Mendonça nella II Domenica di Avvento

Nella II Domenica di Avvento il card. José Tolentino de Mendonça ha presieduto la liturgia della Comunità di Sant'Egidio nella basilica di Santa Maria in Trastevere. Nella sua omelia ha ricordato che "È Gesù che ci prepara il posto, per il Suo e nostro Natale. E noi siamo personaggi della sua storia di salvezza."

Video della liturgia

Letture della II Domenica di Avvento

OMELIA

Care sorelle e fratelli,

Lungo le liturgie di Avvento, ci vengono presentate diverse figure credenti che rappresentano, nella loro esemplarità, una luce e una sfida per noi. Oggi, la figura messa in evidenza è il Battista. Credo sia utile dire che Giovanni non è soltanto una voce solitaria, ma che integrava un diffuso movimento di attesa messianica caratterizzato da un forte desiderio di trasformazione storica. In quei tempi, tanti vogliono un cambiamento politico e sociale, tanti pretendono di uscire dal conformismo in cui si era caduti. Ai tempi del Battista si levavano molte voci chiedendo un cambiamento profetico. In un certo senso, Giovanni Battista era una tra queste voci. Era una specie di rappresentante. Inoltre, il Vangelo lo presenta vicino ai circoli sacerdotali di Gerusalemme. Giovanni Battista era un figlio di una buona famiglia legata al Tempio. Ma qualunque cosa è accaduta. Questo giovane lascia Gerusalemme, si allontana dal tipo di vita che c'era intorno al Tempio, al commercio pure religioso che lì si praticava, e decide di andare a stabilirsi vicino al fiume Giordano.

La chiamata a ripartire

Non è una scelta innocente, perché il Giordano è il chilometro zero nella storia di Israele. Fu lì che tutto ebbe inizio, quando il popolo, arrivato dal deserto, attraversò il Giordano ed entrò nella terra di Israele. Quando Giovanni Battista sceglie il Giordano è per dire: "Torniamo all'inizio, pensiamo a cosa siamo o cosa possiamo essere ripartendo dal punto  zero".  In quel luogo, lui intensifica la preparazione della gente a un'alternativa. Si vestiva in un modo strano, sceglieva una via di ascetismo radicale, mangiando miele e cavallette. Ma cosa intendeva con questo? Voleva mostrare che il tempo della nostra vita diventa un momento opportuno per il Messia soltanto se saremo in grado di relativizzare il nostro stile di vita, il nostro modo di vivere, il nostro sonnambulismo di chi non guarda accanto, la nostra cieca stabilità. Il Battista arriva per sorprendere. La sua voce segna un nuovo inizio come si ascolta nella prima riga del Vangelo di oggi: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”.

È proprio l’evangelista Marco che avvicina la voce di Giovanni Battista, la stessa che grida nell’oracolo di Isaia: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno» (Is 40, 3-5). L’annunzio è impressionante. Ci presenta la topografia in radicale trasformazione, come se stessimo assistendo a un movimento globale di terre. Si parla di appiattimento, rimozione dell'altezza, sollevamento. Cioè, la forma del mondo cambia affinché tutta la carne possa vedere la salvezza di Dio. Infatti alla base dell'oracolo c'è la convinzione che la salvezza di Dio è universalmente accessibile. Ma c’è anche la certezza che – in nome di questa universalità - è necessario introdurre cambiamenti nel nostro abituale paesaggio: nei muri che costruiamo, l'irregolarità che accettiamo passivamente, nei gonfiamenti inutili che diventano un ostacolo all’incontro e alla fratellanza.

Quello che devo ancora fare

Se vogliamo essere onesti, la nostra vita è piena di istanze restrittive e di muri nascosti. L’avvento non è per confermarli: è per abbatterli, per criticarli in profondità, per riconfigurarli. Un grande teologo del XX secolo, Dietrich Bonhoeffer, ha detto che Dio ci viene incontro non soltanto come un "tu", ma anche come un "quello". "Quello" che devo ancora fare per il mondo e per gli altri. “Quello” che i poveri giustamente attendono. “Quello” che non abbiamo ancora sistemato per i migranti e rifugiati. “Quello” che non abbiamo ancora organizzato per la pace, soprattutto quella che dipende da noi. “Quello” che ancora non abbiamo promosso per gli anziani. “Quello” che non abbiamo ancora avviato per chi dorme per strada, per chi, in questa pandemia, è minacciato nella sua sopravvivenza e non solo sanitaria, ma in tutti i sensi.  È vero: Dio ci viene incontro non soltanto come un "tu", ma anche come un "quello". “Quello” che soltanto emergerà nella storia quando romperemo con la dittatura dell’indifferenza e dello scarto.

Il Natale del Signore, che l’annunzio del Battista prepara, ci sfida ad osare vivere diversamente. Il Natale è una mangiatoia, il Natale è una culla, cioè la possibilità donata alla donna e all'uomo che siamo di poter rinascere. Ma il Natale arriverà soltanto a quei cuori che si aprono alla ricerca, alla domanda, al desiderio vitale di che Gesù venga a trasformare, a salvare la nostra storia. Giovanni Battista ci insegna che siamo annunciatori e sentinelle; che abbiamo il dovere di essere visionari e servitori del futuro, anelli di una catena che ci supera. Non siamo proprietari, siamo custodi. Siamo trasmettitori della vita di Dio.

È pure magnifico il testo della Lettera di San Pietro che abbiamo letto. Ad un certo punto, l'autore unisce due verbi: aspettare e affrettarsi. Dobbiamo da un lato aspettare la salvezza, ma dall’altro dobbiamo affrettare la salvezza, la manifestazione di Dio. Un nuovo cielo e una nuova terra dove abita la giustizia: questa è la nostra aspettativa! Ma non è solo un'aspettativa. É un'attesa che già oggi ci impegna, perché siamo chiamati ad affrettare la venuta del Signore, a renderla presente e efficace.

Una sorta di mappa per l’Avvento


Il profeta Isaia ci lascia con tre immagini che possono essere per noi una chiamata concreta ed una sorta di mappa in questo Avvento.

La prima è l’immagine della consolazione. “Consolate, consolate il mio popolo”. Il nostro ministero è un ministero di consolazione. Il nostro compito di cristiani, in questo pandemico tempo di desolazione, in questo avvento che somiglia più ad una austera quaresima, è quello di consolare i poveri e quelli che soffrono. C'è un testo famoso di uno scrittore contemporaneo, Stig Dagerman, che ha un titolo terribile: “Il nostro bisogno di consolazione è impossibile da soddisfare”. È terribile ma ci dice qualcosa di reale: non è facile l’arte della consolazione. Questa è esigente, lenta, chiede la disponibilità di fare insieme un lungo cammino di ricostruzione della speranza. Ma, proprio per questo, Dio ci dice oggi: "Consolate, consolate il mio popolo".

La seconda è l'immagine della pazienza, della pazienza di Dio. Dio sa aspettare, Dio perdona e ci dà il tempo necessario per la conversione. L’autore della Lettera di Pietro continuerà anche questa immagine, così presente nella tradizione spirituale cristiana. Dio è paziente, Dio aspetta, Dio sa aspettare tutti. Ma non facciamo in modo che questa attesa sia un tempo di dispersione, piuttosto sia di attenzione e vigilanza. Solo chi è attento può compromettersi fino in fondo con l’Avvento di Dio.
 
L'ultima immagine è quella di Dio pastore, che prende gli agnelli tra le braccia: è una icona del rapporto di affetto, di dedizione che Dio ha per la nostra vita e per la vita di tutti. Riconosciamo, in questo avvento, che non siamo noi a costruire una grotta, a mettere insieme i personaggi del presepe, a individuare un luogo in cui il Bambino possa nascere. No. È Gesù che ci prepara il posto, ci prepara una mangiatoia, ci prepara per il Suo e nostro Natale. Per quanto questo ci stupisca, noi siamo personaggi della sua storia di salvezza. Ed è lì, nel mistero della tenerezza di Dio che non smette di amare il mondo, che si colloca la nostra vita, qualunque essa sia.