Nella vita spezzata di Marius c'è la storia dei nuovi italiani cresciuti insieme a noi

E' passato ormai un po' di tempo dal crollo del ponte Morandi e si ha l'impressione di aver ascoltato, letto - e speso - tutte le parole che c'erano da sentire e da pronunciare. Con il Ponte è crollato qualcosa che ha contribuito a tenere unità la città, anche fisicamente: a tessere le trame dei legami tra persone, a favorire i collegamenti, a creare lo spazio per il commercio e il lavoro. Avviene per i genovesi qualcosa di simile a quanto accade nelle nostre case quando muore una persona cara e, tutto di un tratto, ci si accorge di quanto quella presenza, magari sempre riservata e dietro le quinte, fosse essenziale per tenere unita la famiglia.
Il ponte Morandi, in fondo - ma ce ne accorgiamo tutti solo oggi - esprime tanto della nostra città, e, forse più della Lanterna stessa, potrebbe essere un simbolo della sua storia recente. Da più di cinquant'anni ci ha permesso di attraversare Genova da una parte all'altra, di viverla, ed era una presenza familiare anche per quei genovesi che lo hanno utilizzato solo per superare il Polcevera e magari non hanno mai visitato i quartieri che l'autostrada attraversa in modo tanto invasivo. Lo dimostra il fatto che tutti hanno un ricordo recente, recentissimo («Ci sono passato mezz'ora prima del crollo») oppure remoto («L'ho visto costruire», «Ho partecipato alla costruzione»). È crollato qualcosa che legava e che ha contribuito a fare della città non un conglomerato anonimo di individui, ma una comunità di destino e questo in un certo senso, in modo un po` paradigmatico, ci ricorda che una città crolla quando crolla quello che unisce e quando non si costruiscono ponti tra la vita delle persone.
Resta, a questo punto, una domanda sospesa, che va al di là delle legittime preoccupazioni contingenti: la mobilità, la collocazione degli sfollati, l'accertamento delle responsabilità. E la domanda è: «E ora?». Ora dobbiamo ricominciare e forse occorre ricominciare proprio guardando le vittime, i feriti, gli sfollati. Noi della Comunità di 
Sant'Egidio vogliamo farlo ricordando tutti ed in particolare con grande affetto ed amicizia Marius Djerri, il giovane di origini albanesi che è morto mentre si recava al lavoro.
Marius era amico di molti di noi: da bambino ha frequentato la Scuola della Pace nel quartiere di Cornigliano: i pomeriggi insieme ai Giardini Melis, l'aiuto nei compiti, le vacanze al mare e in montagna. Era bello Marius, lo è sempre stato, anche da bambino: lo ricordiamo con il suo sguardo irrequieto e la tempra vivace, quando con gli altri bambini di Cornigliano aveva imparato a ragionare sulla costruzione di un quartiere e di una città migliore. C'è un dolore inesprimibile nel vedere una vita giovane spezzata. Eppure mi sembra che Marius ci aiuti a comprendere come anche la geografia del lutto sia cambiata nella nostra città: le vittime, gli sfollati parlano lingue differenti, pregano in modi diversi, eppure sono a tutti gli effetti nostri concittadini perché vivono e lavorano per lo sviluppo di Genova e tragicamente - muoiono per le nostre stesse disgrazie.
Marius era in tutto e per tutto "uno di noi", eppure era anche l'esponente della generazione "di mezzo" dei migranti che abitano nella nostra città. I suoi genitori hanno visto il crollo del regime comunista albanese, l'esodo drammatico della loro gente all'inizio degli anni Novanta dietro il miraggio dell'immagine luccicante e posticcia che dell'Occidente rimandavano le tv commerciali. Hanno lavorato molto e, come tutti gli albanesi, sono passati attraverso il pregiudizio volgare, il razzismo talvolta esplicito, la necessità umiliante di dover sempre dimostrare di essere brave persone "nonostante" la loro provenienza. Eppure, come tante famiglie di quella generazione "ce l'hanno fatta". E il segno del loro successo non è tanto la loro professione, o il conto in banca, ma proprio Marius e gli altri cugini che lavorano, studiano, non solo per accedere al mercato del lavoro, ma anche per conoscere la cultura del nostro paese e in questo modo sono diventati pienamente e profondamente italiani.
Nel crollo del 14 agosto non c'è nulla di positivo. Eppure dalle macerie del Ponte emerge l'estrema dignità di un percorso - silenzioso e quasi sconosciuto nella narrazione collettiva dell'immigrazione italiana -che è stato compiuto da tante famiglie di diversi paesi e che Marius, Edy e altri rappresentano. Oggi degli immigrati in Italia si parla solo come un fattore di insicurezza, ma forse bisognerebbe iniziare a dire che ciò che rende insicure le nostre strade e i nostri palazzi non è la presenza delle famiglie di migranti - l`Italia è, ad oggi, uno dei paesi più sicuri al mondo - ma l'incuria sulla cosa pubblica che nasce da una politica che è in ostaggio della ricerca ossessiva del consenso e da un'amministrazione distratta e spesso carente di competenze specifiche.
C'è molta tattica e poca strategia nel discorso pubblico italiano: Marius, e tanti come lui, non sono "immigrati", ma a tutti gli effetti sono i genovesi 2.0, i "nuovi europei". Sono il ponte tra il passato e il futuro. Questo è un dato di fatto: e la dignità composta del dolore della famiglia, che è anche il nostro, la serietà delle loro
vite e del loro contributo a quella della città, lo affermano in modo eloquente e definitivo. Chi non tiene conto di questi mutamenti ha a cuore altri interessi, ma, semplicemente, non guarda con serietà al futuro che è necessario costruire. Le persone che vivono, lavorano, studiano accanto ai tanti Marius della nostra città sentono disagio di fronte al modo in cui la politica e i media raccontano la nostra società. È un disagio silenzioso, ma reale: l'Italia, vista da Genova, forse sta cambiando.
Il 14 agosto chiede a tutti di andare in profondità, di cambiare sguardo, di comprendere di più. La gente - mi sembra non sia solo un auspicio - pretende da chi ha responsabilità di governo e da chi racconta la società che aderiscano di più alla vita reale della gente e meno alle esigenze di una propaganda elettorale ininterrotta. E che si ricominci a progettare un Paese e una città che tenga insieme le sue componenti plurali e meticce. Non c'è solo un ponte da ricostruire, ma una visione della società. È l'occasione per farlo in modo nuovo. E per farlo insieme.


[ Andrea Chiappori ]