Se per battere la paura del contagio si mettono in ginocchio le nostre chiese

Se per battere la paura del contagio si mettono in ginocchio le nostre chiese

La chiusura di tante chiese nel Nord Italia, la sospensione delle messe, i funerali solo con i familiari e misure del genere mi hanno lasciato una certa amarezza. Non sono un epidemiologo, ma ci troviamo davvero di fronte a rischi così grandi da rinunciare alla nostra vita religiosa comunitaria?

La prudenza serve, ma forse ci siamo fatti prendere la mano dalla grande protagonista del tempo: la "paura". Peraltro negozi, supermercati e bar (in parte) sono aperti, mentre bus e metro funzionano. E giustamente. Le chiese invece sono state quasi equiparate a teatri e cinema (obbligati alla chiusura). Possono restare aperte, ma senza preghiera comune. Che pericolo sono le messe feriali, cui partecipa un pugno di persone, sparse sui banchi in edifici di grande cubatura? Meno che un bar o la metro o un supermercato. Solo in Emilia sono state permesse le messe feriali. Un forte segnale di paura. Ma anche l'espressione dell'appiattimento della Chiesa sulle istituzioni civili.
Le chiese non sono solo "assembramento" a rischio, ma anche un luogo dello spirito: una risorsa in tempi difficili, che suscita speranza, consola e ricorda che non ci si salva da soli. Non voglio rammentare Carlo Borromeo, nel 1576-77, il tempo della peste a Milano (epidemia ben più grave del coronavirus e combattuta allora a mani nude): questi visitava i malati, pregava con il popolo e fece scalzo una folta processione per la fine del flagello. Di certo la preghiera comune in chiesa alimenta speranza e solidarietà. Si sa come motivazioni, forti e spirituali, aiutino a resistere alla malattia: è esperienza comune. Il sociologo americano Rodney Stark, scrivendo sull'ascesa del cristianesimo nei primi secoli, nota come fu decisivo il comportamento dei cristiani nelle epidemie: questi non fuggivano come i pagani fuori dalle città e non sfuggivano agli altri, ma, motivati dalla fede, si visitavano e sostenevano, pregavano insieme, seppellivano i morti. Tanto che il loro tasso di sopravvivenza fu più alto dei pagani per l'assistenza coscienziosa, pur senza medicamenti, e per il legame comunitario e sociale. I tempi cambiano, ma le recenti misure sul coronavirus sembrano banalizzare lo spazio della Chiesa, rivelando la mentalità dei governanti.

Di fronte alla "grande paura", parla solo il messaggio della politica, unica e incerta protagonista di questi giorni. Il silenzio nelle chiese (anche se aperte) è un po' un vuoto nella società: il libero trovarsi insieme nella preghiera sarebbe stato ben altro messaggio, anche se ci vogliono prudenza e autocontrollo. Social, radio e televisione non lo sostituiscono. Si capisce perché l'arcivescovo di Torino, monsignor Nosiglia, lamenti che, nell'ordinanza della Regione Piemonte (simile alle altre del Nord) «i servizi religiosi vengano considerati superflui e quindi non esenti da provvedimenti restrittivi». E così: "superflui". È un fatto su cui riflettere: prodotto di una politica che insegue la paura, anche se talvolta esibisce simboli religiosi. Ma il simbolo religioso, per eccellenza, è la comunità in preghiera. Nemmeno ai tempi dei bombardamenti e del passaggio del fronte durante la seconda guerra mondiale (quando la Chiesa fu l'anima della tenuta di un popolo), si chiudevano le chiese e si sospendevano le preghiere. Anzi il popolo si radunava fiducioso in esse, nonostante i pericoli di bombe e massacri. Forse la collaborazione dell'autorità ecclesiastica locale con quelle regionali è stata troppo intesa come subordinazione a quest'ultima. Si finisce così per banalizzare la presenza e l'apporto della Chiesa, che dà invece un suo contributo alla vita delle persone. Si svolgono tristi funerali al cimitero, con solo pochi familiari. Il "silenzio" e la solitudine religiosa sono un aggravio tra le difficoltà. Proviamo ad ascoltare i sentimenti del "popolo di Dio": a Padova la famiglia di una quattordicenne, stroncata da un malore, ha rifiutato il funerale privato e l'ha ottenuto dalle autorità all'aperto per far partecipare tanti giovani.


[ Andrea Riccardi ]