Nelle case di riposo "chiuse" gli anziani si lasciano morire

Nelle case di riposo "chiuse" gli anziani si lasciano morire

Basterebbero le parole dei diretti interessati. Renata, 94 anni, in casa di riposo a Cuneo: «Ci vuole coraggio a non credere più che qualcuno ti aspetti. Noi vecchi siamo agli arresti domiciliari». Un nonno in istituto, morto per coronavirus nell'ultima lettera ai nipoti: «Certo, non potevo mai immaginare di finire in un luogo del genere. Apparentemente tutto pulito e in ordine ma noi siamo solo dei numeri».Anna, nipote di Alan, 91 anni, ricoverato in casa di riposo a Norfolk prima che questi si spegnesse. «Ci è stata concessa una visita di mezz'ora da parte di un membro della famiglia per salutarci; a mio zio non è stato permesso di toccargli la mano, anche dopo aver disinfettato». Si potrebbe continuare...
Mentre in tutta Europa la pandemia torna a colpire duro e si ricomincia a parlare di lockdown completo, c'è una fascia non piccola della popolazione per cui il lockdown non si è mai interrotto e alla fase 1 non è mai seguita la 2 o la 3: sono gli anziani in istituto.
Lo sappiamo, nelle Rsa e nelle case di riposo sono morti in tanti. In troppi. Più del 60 per cento delle morti da Covid-19 in Europa. Ciò è avvenuto non per caso né per circostanze imprevedibili: impreparazione organizzativa e del personale (non in discussione il loro comportamento); scelte gravi e irresponsabili dei decisori politici e delle direzioni; disattenzioni e sottovalutazioni. Ma la scelta più scellerata è stata non attivare il distanziamento fisico all'interno e cancellare ogni comunicazione con l'esterno. Isolati, soli... e pure contagiati!
Ci si è dimenticati che gli anziani, tanto più se sradicati dal loro contesto di vita o dal loro quartiere, senza visite, sguardi amorevoli di parenti o amici, parole o gesti di conforto, muoiono o si lasciano morire. La solitudine non è un virus altrettanto letale? Lo ha scritto anche il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà nel suo ultimo rapporto al Parlamento: "Gli eventi recenti nelle Residenze sanitarie assistenziali proprio nel periodo della chiusura per il contagio le hanno configurate solo come potenziali cluster, quasi a dimenticare che erano luoghi dove si realizzava la forzata interruzione dei legami e ci si avviava ad esiti nefasti in un contesto, spesso, di vuoto e di percezione di solitudine assoluta". Più chiaro di così!
Certo, bisognava proteggerli, gli anziani. Peccato che il contagio - così è stato dimostrato - lo avessero portato nella maggior parte dei casi gli operatori, certo non i parenti. Ma per molte strutture forse il lockdown è stato anche l'occasione per non avere troppi intrusi, che vuol dire segnalazioni, controlli, critiche: la reclusione ha fatto comodo. In molti istituti ad esempio si è registrato un peggioramento delle condizioni di salute degli anziani, a causa di una più scarsa alimentazione e nutrizione. L'interruzione delle visite di parenti ha inoltre prodotto una serie di problemi concreti come l'impossibilità da parte dei ricoverati di accedere ai propri risparmi, facendo venir loro a mancare la possibilità di acquistare beni necessari (giornali, sigarette, generi legati alla cosmesi o alla pulizia personale, ecc.).
Nella maggior parte delle strutture non è stato predisposto alcuno spazio protetto per le visite da fuori; in altre non è stato adeguatamente messo a disposizione l'ampio spazio anche all'esterno (parchi, giardini, cortili) di cui sono dotate per permettere ai visitatori un contatto sicuro e prolungato con i propri cari. Nei rari casi in cui i sigilli sono stati allentati, il contingentamento dei tempi di visita è stato davvero ristretto e, considerato il numero elevato di ospiti nelle residenze, si può immaginare quanto tempo ciascun anziano abbia dovuto aspettare per incontrare un figlio, una figlia, un nipote. O anche solo per rivederlo.
Per non parlare dell'interdizione a visite mediche specialistiche all'esterno dell'istituto, con grave danno per la salute degli anziani, che spesso soffrono di pluripatologie, alcune delle quali necessitano di trattamenti urgenti, non differibili e non eseguibili in strutture a bassa intensità di cura. Dopo l'introduzione alla fine di agosto di nuove linee guida da parte dell'ISS per le Rsa, che avrebbero voluto essere più "morbide" per l'accesso esterno, ma che nella sostanza hanno confermato un approccio molto rigido,
Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant'Egidio aveva scritto sul «Corriere della Sera»: "Tali restrizioni non garantiscono una protezione efficace per i più fragili, mentre è accertato che sono le relazioni personali a costituire un'indispensabile fattore di protezione per la salute fisica, mentale e psichica di ogni individuo". Qualche giorno prima, su questo giornale, Costantino Bolis, un medico sensibile, aveva scritto al direttore: «È molto difficile comprendere come non si possano coniugare sicurezza e diritto del paziente di ricevere visite e conforto durante la malattia, perlomeno di un solo famigliare con tutti i dispositivi di protezione, una volta al giorno e per un tempo limitato. I danni che tutto ciò sta provocando sono enormi e gli psichiatri, con molta più competenza di me, stanno esprimendosi in tal senso, pubblicando dati che devono farci riflettere seriamente».
È necessario fare emergere dal silenzio voci come queste. Ce ne sono tantissime, ne sono sicuro. Se taceranno i proprietari di strutture con le quali oggi in Italia si fanno tanti soldi, grideranno gli uomini e le donne di buon senso che non vogliono abbandonare ad un destino infame una generazione a cui questo paese deve molto.


[ Giancarlo Penza ]