Gli sfollati indigeni accampati nel parco di Bogotà

Colombia

Da sedici giorni dormono sotto teloni di plastica nel parco nazionale di Bogotà. Sono oltre un migliaio di donne, uomini e bambini, e appartengono a vari popoli nativi: gli Embera, i Wayúu e i Kubeo. Tutti sono profughi di un conflitto terminato ufficialmente il 24 novembre di cinque anni fa, quando il governo e le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc) hanno firmato la pace.
L'accordo, elogiato per la sua completezza, fatica a tradursi in realtà, soprattutto nell'ampia fascia del Pacifico, ostaggio della violenza dei gruppi paramilitari - che hanno occupato il vuoto lasciato dai guerriglieri - e delle fazioni dissidenti delle Farc. Da questo dramma, che ha sequestrato le loro comunità nel Chocó e nel Pereira, occupate dai miliziani, sono fuggiti gli indigeni accampati a Bogotà.
Nella capitale sono arrivati un anno e mezzo fa, come rifugiati di guerra, riconosciuti come tali dal municipio di Bogotà e dall'Unità per le vittime che li hanno presi in carico. Ora, però, le autorità hanno finito i soldi. E gli sfollati sono rimasti senza casa e senza cibo. Invisibili, per quasi tutti.
A sostenerli la comunità di Sant'Egidio che ha lanciato un appello alla città per richiamare l'attenzione sulla situazione. In tanti hanno risposto, secondo quanto riferisce la Comunità: «Assieme ad alcune realtà ecclesiali, scuole, università si è creata una rete di solidarietà per dare loro cibo, alloggio e medicine. Lavoriamo insieme agli altri attori della società colombiana per trovare soluzioni che restituiscano dignità e futuro alle popolazioni indigene, a lungo vittime della violenza e dell'indifferenza». 


[ Lu.C. ]