Da Kabul a Roma l`odissea con lieto fine dei due afghani in fuga

La storia
Sono giunti nel nostro Paese grazie ai corridoi umanitari del governo e al sostegno di Sant'Egidio

Una coppia che ha attraversato l'Oriente, affrontando ogni tipo di minaccia con lei incinta all'ottavo mese. E che adesso, a pochi giorni dal Natale, trova una casa al sicuro in Italia. La loro è un'odissea cominciata alla caduta di Kabul, che Repubblica ha seguito e raccontato in tutte le sue tappe, mantenendo però segreti i nomi: Benafsha e Shoaib Farzad.
Sono partiti a fine agosto, infilando la vita dentro a un trolley: il filmino del matrimonio, la foto del nonno che non c'è più, i vestitini per il nascituro che si chiamerà Akbar. «Abbiamo visto l'Italia dall'alto, è più bella di quanto immaginassimo. Certo le piante e gli alberi in questa stagione stanno morendo, ma per noi è un nuovo inizio».
A Kabul lavoravano per la scuola di Farza: lei come insegnante, lui nell'amministrazione. I talebani l'avevano rasa al suolo ed era stata riaperta grazie a Wave of Hope for the Future onlus, un'associazione italiana creata e gestita dai rifugiati per aiutare i rifugiati. Così 650 studenti, in gran parte ragazze, avevano avuto la possibilità di studiare, ma la vittoria dei fondamentalisti ha distrutto ogni sogno e trasformato la coppia in bersaglio della vendetta.
Benafsha e Shoaib sono tra i tanti che hanno chiesto aiuto a sosafghanistan@repubblicalt, l'iniziativa di Repubblica per non dimenticare i nostri collaboratori bloccati in Afghanistan. E grazie ai corridoi umanitari della Farnesina sono arrivati nel nostro Paese. «Quando il governo si è dissolto, abbiamo organizzato manifestazioni per difendere i diritti civili, in particolare per le donne, e i talebani sono venuti a cercarci a casa. Mi hanno arrestato: sono stato rilasciato solo perché avevo del denaro e ho pagato. A quel punto per salvarci dovevamo scappare», spiega Shoaib. Insieme ad altri otto colleghi ad agosto entrano nella lista per essere evacuati, ma non riescono a varcare i cancelli dell'aeroporto. «Quando abbiamo visto l'ultimo aereo occidentale decollare da Kabul abbiamo capito che era stato tutto inutile», dice Benafsha stringendo il mazzo di rose che le hanno appena regalato all'atterraggio a Fiumicino.
E così si mettono in viaggio per il Pakistan, attraversando i posti di blocco dei fondamentalisti per arrivare al valico di Spin Boldak. «Quindici ore di bus portandoci addosso il terrore di essere arrestati. Il confine poi era un inferno, una calca di disperati che come noi volevano fuggire», ricordano. Sono entrati illegalmente e credevano di non farcela: «Abbiamo sofferto molto. Siamo stati nascosti in casa di amici a Quetta. Lì respiravamo, ma non vivevamo. Non uscivamo perché la polizia ci poteva riportare in Afghanistan». Il pensiero va ai colleghi che sono ancora lì e al loro nipotino: «Vogliamo averli con noi il prima possibile. Speriamo che l'Italia riesca ad aiutarli».
«Insieme al governo e alla Comunità di Sant'Egidio
 stiamo facendo di tutto per portarli al sicuro. È una catena di solidarietà per non dimenticare le persone che hanno lavorato con noi», spiega Costantino Tenuta, presidente di Wave of Hope for the Future Onlus. L'associazione ha preso in affitto un appartamento dove Benafsha e Shoaib resteranno in quarantena e ha lanciato un crowdfunding per i costi di vitto e alloggio. «Ci avete aiutato, ora vogliamo dare noi un contributo al vostro Paese», ripetono Benafsha e Shoaib.
L'inizio di una nuova vita. La loro e quella del piccolo Akbar: «Che non vedrà l'Afghanistan finché non ci sarà la pace, ma crescerà imparando a diffondere umanità». 

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[ Floriana Bulfon ]