«Senza fraternità non c'è futuro»

Alla presentazione del corso, al via a ottobre, Andrea Riccardi ha proposto una riflessione su «La scelta della pace»: «Pensare il cristianesimo nella storia, che è sotto casa e abbraccia gli orizzonti del mondo»
«Per resistere alla crudeltà del mondo deve diventare scopo, senza smettere di essere mezzo: l'urgenza è la svolta dall'io al noi». «Non rassegnami alla cronaca, ma cercare sogni larghi, che scompigliano le misure modeste, realiste, avare, con cui si guarda al presente»

Inizia con gli auguri Andrea Riccardi che, per l'inaugurazione del corso di formazione sociale "Fratelli tutti", sceglie di richiamare «alla dimensione sociale della responsabilità, maturata attraverso una serie di shock». Responsabilità sociale «oggi, nei confronti del futuro, in questo tempo di guerra» e che deve fare i conti - come scrive Francesco nell'Evangelii Guadium - con «la coscienza isolata», che rappresenta il rifiuto della dimensione solidale. Urge forse un cambio di prospettiva: «Abbiamo tanto parlato di secolarizzazione, ma dovremo focalizzare l'attenzione sulla globalizzazione, che ha scosso in profondità l'io e il noi. Il totalitarismo dell'io - commenta Riccardi - chiude lo spazio alla vita religiosa della comunità». E prosegue: «Dopo la pandemia e lo sgonfiamento di una politica urlata, vediamo tutti i vuoti della nostra personale e sociale. Abbiamo bisogno di un po' più di noi e un po' più di io», riprendendo un appello del Papa.
«Oggi - è la denuncia - non siamo ancora una comunità: serve la ricostruzione del noi, di legami sociali, interpersonali. Con lo spostamento dal noi all'io, stiamo assistendo ad un cambiamento climatico culturale, ad una desertificazione della vita, che appare penosa nei cammini difficili della propria esistenza». Dove si sperimenta che «l'io non può reggere da solo».
Si colloca in questo contesto l'enciclica Fratelli tutti. Solitudine, isolamento che, già nelle pagine della Bibbia, non è considerato un bene, ma un male: «Non è bene che l'uomo sia solo»: lo sguardo di Dio su Adamo verrà poi gridato dal Papa, in piazza San Pietro, anch'essa deserta, il 27 marzo 2020: «Nessuno si salva da solo». E se l'urgenza è «la svolta dall'io al noi», occorre un altro passaggio.
Riccardi nel ribadire che «la forza di una città è il pozzo profondo della storia», lamenta la miopia di chi non è abituato a leggere la storia e si muove nel presente «come un gatto cieco»; miopia, ad esempio, di chi vede la pandemia solo come una parentesi. Miopia lamentata anche dal Papa, che «constata la carenza di visioni considerate inutili dai detentori dei potere dello status quo». Ulteriore causa di isolamento, dal momento che «la perdita della coscienza storica provoca ulteriore disgregazione». Realtà, questa, di fronte alla quale occorre «reagire con un sogno di fraternità»; sogno che spesso oggi «viene screditato come un delirio». E che, nella Bibbia, è «una immagine ricorrente per esprimere una visione di futuro».
Cita il cardinal Martini: «E necessario il sostegno di un sogno su cui misurare il presente, senza lasciarci fuorviare dalle urgenze quotidiane. Bisogna sognare alla grande». Come fece Martin Luther King. Ma chi sono gli attori, i protagonisti del sogno? «Ci sono resistenze, anche nella Chiesa, non solo a muoversi, ma anche a pensare». Per questo Riccardi si congratula per l'iniziativa di questo corso «perché apre la possibilità non solo di fermarsi, ma di pensare il cristianesimo nella storia, che è sotto casa mia e abbraccia gli orizzonti del mondo».
Cambiamento climatico culturale in atto, che si gioca sulla persona: «Per fare la differenza tutto ciò che dobbiamo fare è cambiare noi stessi. Non dobbiamo aspettare che il mondo cambi per cambiare la nostra vita. E un processo che parte da me». Cita Buber: «Il punto di Archimede a partire dal quale posso sollevare il mondo e la mia vita è me stesso». Rinforza con Baumann: «Occorre trasferire le sorti della coabitazione, della solidarietà e della collaborazione pacifica tra gli uomini dall'ambito vago e oscuro della grande politica nelle strade, nelle officine, negli uffici, nelle scuole e negli spazi pubblici dove noi ci incontriamo». Si delinea così la necessità di «un processo di affratellamento e di dialogo», che coniughi «il globale e il locale».
Si tratta di una ingenuità? E la domanda che Riccardi pone, aggiungendo: «La visione del Papa è una ingenuità?». E spiega i due grandi pericoli che vede Bergoglio: il mercato, inteso come dogma di fede, e il populismo, «figlio della crisi della democrazia»; a cui contrappone l'idea e la concezione di «popolo». Nessuna ingenuità, ma estremo realismo e concretezza: «Senza fraternità non c'è futuro». La fraternità «come mezzo per resistere alla crudeltà del mondo, deve diventare scopo, senza smettere di essere mezzo». Fraternità che muore con la guerra: il pensiero va all'Ucraina, dove si consuma «una guerra fratricida» e che segna «la fine del sogno del mondo post globale affidato solo al mercato». E dove «parlare di pace non è essere putiniani».
Guerra con cui la Fratelli tutti, enciclica sulla pace, deve misurarsi. Non solo quella dell'Ucraina, ma ancor prima quella della Siria. La denuncia: «Ci siamo voltati dall'altra parte, mentre la Russia ha fatto le prove generali». Dentro ad un altro paradosso: «Noi europei, noi italiani, abbiamo progressivamente dimenticato l'orrore della guerra, diventata un videogame. Ci siamo abituati alle guerre degli altri, abbiamo accettato la guerra come compagna di vita». Parallelamente si è assistito ad «un affievolimento del movimento per la pace, anche se rimangono qui e là bandiere sempre più sporche. La guerra non è un fantasma del passato, ma una minaccia del presente. Ed è una miopia il fatto che la guerra degli altri non ci interessa».
Non si può, infatti, secondo Riccardi, «isolare un conflitto», dal momento che «siamo un reticolo di interdipendenze», per cui «il mondo globale provoca facilmente l'allargamento dei conflitti». E, come ribadisce il Papa, «la guerra non lascia migliore il mondo». Altra denuncia: «Siamo arretrati rispetto alla conquista della pace e dell'integrazioni», in un mondo «incapace di gestire i conflitti». A questo aggiunge un'altra amara constatazione: «Le guerre non si vincono, né si perdono, si incancreniscono e si etemizzano», rappresentando «una sconfitta di fronte alle forze del male. Ma chi sceglie di non mettere fine alla guerra pagherà un prezzo molto alto».
Anche in mezzo alle guerre, «i Papi non rinunciano a parlare di pace, non condannano i popoli né si pongono come tribunali». E se in guerra «si diffonde una visione binaria: amico/nemico, vinto/vincitore», occorre chiamare le cose col loro nome, «senza dimenticare che il negoziare per la pace è un obiettivo». Ma «noi, di fronte alla guerra, siamo tutti irrilevanti, col rischio di diventare indifferenti. Non possiamo rimanere spettatori. Dobbiamo - è l'invito pressante - gridare, pregare la pace. L'artigianato della pace è compito di tutti. Un'Università, una diocesi, una città può diventare soggetto di relazioni internazionali pacifiche. La responsabilità non è solo dei grandi, ma anche dei piccoli che se la prendono. Se tanti possono fare la guerra, tanti possono fare la pace».
Il pensiero va a quell'ottobre ad Assisi e alle parole di Giovanni Paolo II: «La pace attende i suoi profeti, i suoi strateghi, gli artefici!». Parole che gli sono risuonate dentro, spingendolo ad assumersi impegni per la pace: «Gli uomini e le donne della fraternità e della responsabilità sociale possono essere artigiani di pace». La visione del Papa non è ingenua, ma «propone sogni veri, capaci di riaccendere i fari delle grandi parole e dei grandi ideali».
Conclude citando Sturzo, uomo realista, quando nel 1929 scriveva: «Bisogna avere fede che la guerra come mezzo giuridico di tutela dei diritti dovrà essere abilita, come fu abolita la schiavitù, la poligamia». Abolire, verbo ripreso dal Papa: «E giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia degli uomini, prima che la guerra cancelli gli uomini dalla storia». Non solo un invito, ma un monito: il non rassegnarci alla cronaca, ma il cercare «sogni larghi, che scompigliano le misure modeste, realiste, avare, con cui si guarda al presente». Perché noi, come diceva il cardinal Martini, «rimaniamo con la fame di soluzioni globali». 


[ Maria Cecilia Scaffardi ]