Una crisi che non è solo economica

Le proteste di piazza scuotono l'America Latina

Una «angoscia per il futuro che attraversa tutte le società latinoamericane», con «livelli di instabilità molto diversi», da ricondurre a «situazioni nazionali che non sono tutte uguali». Così Gianni La Bella, docente di Storia contemporanea all'Università di Modena e Reggio Emilia, inquadra le inquietudini che scuotono il continente latinoamericano. Dall'Ecuador all'Argentina, da Panamá ad Haiti, fino a Cuba, si è assistito negli ultimi mesi a imponenti manifestazioni di piazza, accomunate dallo scontento popolare per il carovita, la crescita dell'inflazione, la scarsità di cibo, carburante, elettricità, medicine.
In Ecuador la protesta, guidata dalla "Confederazione delle Nazionalità Indigene dell'Ecuador" (Conaie), è andata avanti per 18 giorni in giugno, paralizzando Quito e altre città, con un bilancio di sette morti e circa 500 feriti tra dimostranti e forze di sicurezza. La richiesta dei manifestanti al governo del presidente Guillermo Lasso rimane quella di misure socio-economiche urgenti, tra cui il taglio dei prezzi del carburante e dei generi alimentari, in parte già varate ma giudicate insufficienti dalle comunità indigene.
«L'Ecuador — spiega La Bella — è un prisma indicativo di motivi di crisi contingenti, frutto dei gravi disastri provocati dalla pandemia, e di problemi di lungo periodo, attinenti alla polarizzazione violenta che da decenni ormai divide questo Paese, dove la componente indigena, che è maggioritaria, si sente isolata». Con la mediazione della locale Conferenza episcopale, le parti sono ora al tavolo del dialogo, avviato il 13 luglio, per un periodo di 90 giorni.
Anche a Panamá la Chiesa cattolica ha accettato un ruolo di mediazione volto a far tornare la situazione alla normalità, dopo che il mese scorso migliaia di manifestanti hanno portato avanti una mobilitazione contro l'inflazione e la corruzione, invocando un taglio del prezzo della benzina e dei prodotti essenziali, com'era successo in primavera pure ín Perú. «La ricchezza di Panamá — nota La Bella — è sostanzialmente la gestione del Canale. Questo ci dà la dimensione di economie strutturalmente fragili», soggette alle ripercussioni «dei movimenti monetari internazionali».
Nel Paese dell'America centrale «in questo momento c'è una crisi economica molto forte, legata all'aumento dei prezzi, che genera una crescita enorme della disoccupazione. Altro aspetto molto importante da focalizzare a Panamá, come in altri Stati dell'America Latina, è — secondo lo studioso — una struttura produttiva che ruota attorno a quello che viene definito "lavoro informale", cioè non organizzato, non tutelato, non retribuito adeguatamente. Nella situazione attuale, tale modalità lavorativa — va avanti — è colpita maggiormente rispetto al lavoro formale e molta gente, che ha già subito gli effetti della pandemia, con i "mercati" informali fermi, si trova oggi a vivere una condizione di precarietà, ancora più angosciante se si pensa al futuro».
In Argentina, dopo il default del 2001, in migliaia sono recentemente scesi in strada per protestare contro una crisi economica dilagante e un'inflazione galoppante pari al 36,2 per cento, tra i tassi più alti al mondo. Risulta in crescita anche la povertà delle famiglie, che ha ormai raggiunto il 37 per cento dei 45 milioni di abitanti. Il Paese, riflette La Bella, appare «imprigionato in una condizione di precarietà assoluta, che mina le possibilità minimali di crescita. Le crisi monetarie — aggiunge l'esperto di questioni latinoamericane — hanno degli effetti devastanti perché vuol dire che per gli argentini la vita quotidiana diventa un incubo, con un potere d'acquisto della moneta locale, il peso, che cambia di giorno in giorno».
Tutto ciò, osserva il docente di Storia contemporanea, che per la Comunità di Sant'Egidio ha seguito negli anni la trattativa tra governo colombiano e guerriglieri delle Farc, «va inserito negli effetti economici e politici che la crisi ucraina sta avendo in tutta l'America Latina», come pure nel quadro di un «diverso equilibrio geopolitico internazionale»: la guerra in Ucraina ha paradossalmente rafforzato «il "fascino" della Russia nel continente, soprattutto per quanto riguarda il Venezuela, il Nicaragua, Cuba».
Proprio a L'Avana, poi, si vive «una sorta di glaciazione», dopo «la fine dei Castro e l'avvento del nuovo regime», dice La Bella, ricordando le frequenti interruzioni di corrente sull'isola, che hanno riacceso le proteste: un anno fa i cubani scesero per le strade della capitale e in altre città per denunciare la mancanza di cibo, medicine, energia elettrica, in un contesto ancora di emergenza pandemica. Per le forniture energetiche, «Cuba dipende al 90 per cento dal Venezuela, le cui sovvenzioni si sono rese molto più problematiche nel corso degli ultimi anni per la crisi che il Paese sta vivendo, dov'è in atto una vera e propria catastrofe umanitaria: si parla di 7 milioni di migranti venezuelani che vagano per il continente e il mondo».
C'è inoltre il caso di Haiti, in preda alla violenza delle bande criminali, ad un anno dall'assassinio del presidente Jovenel Moise. «Haiti e il frutto di una sorta di "somalizzazione", cioè è un Paese in cui le istituzioni sono da tempo prive di forza sociale e credibilità», afferma l'analista di questioni latinoamericane. Secondo alcune ricostruzioni, in un quadro non ancora chiaro, Moise sarebbe stato ucciso «da bande di sicari colombiani e questo ci dà lo spessore e la dimensione di un Paese strutturalmente allo sbando, in cui anche la Polizia e le forze armate non riescono più ad assicurare un controllo sociale», in un panorama in cui la comunità internazionale continua a chiedersi «da dove sia possibile ripartire». 


[ Giada Aquilino ]