Italiani, se la vita è sempre più altrove

I saggi sul Paese che si spopola

«Bisogna guardare agli italiani in modo nuovo, non statico e non fermi a vecchie rappresentazioni», raccomanda Andrea Riccardi. Magari cominciando proprio dall'incontro avuto a Londra con il ragazzo pugliese impiegato come cameriere in un ristorante che si lamentava delle dure condizioni di lavoro e dell'alto costo della vita. «Ma perché non sei rimasto a casa? Un posto così lo avresti trovato...». La risposta: «Qui però c'è la vita!».
Poi proseguendo con la lettura dello studio assai istruttivo di Roberto Volpi, "Gli ultimi italiani. Come si estingue un popolo" (pubblicato da Solferino, pagg. 272, euro 16,50) per constatare che il ritmo di perdita della popolazione ormai innescato ridurrà nell'arco di un secolo e mezzo a zero gli abitanti del Paese. Quindi arrivando ai saggi che compongono "L'Italia e i figli del vento" di Delfina Licata (Donzelli, pagg. 136, euro 16) e coglierne il punto centrale, sottolineato proprio da Riccardi nella prefazione: «L'Italia è un Paese che si muove: si muovono gli immigrati, non solo venendo in Italia, ma anche lasciandola; si muovono gli italiani, che vanno fuori dal Paese. La mobilità è un'opzione che tocca da vicino molte esistenze dei nostri concittadini. Siamo un Paese anziano, ma non fermo».
Ecco, converrà tenere a mente l'affermazione del fondatore della comunità di Sant'Egidio, storico contemporaneista e già ministro, ora che lo schema di esposizione della realtà pare ritrarsi ancora nel paradigma distorto di un Paese assediato da schiere di stranieri invasori, giunti su barconi ad assaltare i confini e minacciare così la sicurezza nazionale: per cui non resta che serrare le porte, rigettare le orde a mare, rilasciare tutti nell'indefinito e chiuderla lì. Salvo poi accorgersi che l'Italia scivola inesorabilmente nella condizione di luogo abitato da anziani, che mette al mondo sempre meno figli, il posto più longevo d'Europa e insieme quello con il record della diminuzione di natalità, da dove non soltanto i giovani vanno via a cercare nuove opportunità di vita e di lavoro ma anche coloro che sono riusciti ad approdare da terre disgraziate e infelici preferiscono ripartire, lasciando - secondo l'ultima stima della Fondazione "Giuseppe Di Vittorio" - un buco di trentamila posti in aziende, scuole e uffici nell'attesa di chi voglia occuparli.
Occorrerebbe, insomma, sgomberare il terreno da strumentalizzazioni e opportunismi per provare a capire che cosa davvero sia successo sul versante della demografia, cioè nell'ambito che registra i mutamenti quantitativi della popolazione e prova a intercettarne le traiettorie che consentono valutazioni di tipo qualitativo.
Delfina Licata, sociologa delle migrazioni presso la Fondazione "Migrantes" della Cei, scruta lo scenario da un osservatorio privilegiato: da anni cura il "Rapporto Italiani nel mondo" e ciò le consente di guadagnare una visione dinàrnica di un fenomeno che si è evoluto, facendo slittare il suo significato da quello dell'antica emigrazione alla moderna migrazione fino alla contemporanea mobilità. Il tratto d'unione resta la tensione alla ricerca di una migliore condizione di vita, fissato nella citazione da Rainer Maria Rilke che dà il titolo al suo libro, «Nessun vento è favorevole per chi non sa dove andare, ma per noi che sappiamo, anche la brezza sarà preziosa».
Si scopre, così, che nonostante dal momento della svolta statistica sia ormai trascorso mezzo secolo fa non c'è stato alcun passo in avanti nell'acquisire il cambiamento concettuale. Nel 1973 per la prima volta gli indicatori dell'Istat segnalano che in Italia il numero dei rimpatri ha superato quello degli espatri, 125.168 persone in ingresso e 123.802 in uscita: il Paese delle cicliche partenze e degli esodi biblici, degli strappi identitari e degli spaesamenti obbligati che si era definito nell'iconografia dei bastimenti e delle valige di cartone, diventa il luogo degli approdi e degli arrivi dalle regioni di un mondo attraversato dai conflitti e dalle crisi, la meta dell'accoglienza o quantomeno la piattaforma intermedia di chi insegue un migliore destino.
La migrazione che assume sempre di più i connotati della mobilità, una torsione lessicale che contiene una sostanziale mutazione di senso. Come sembra suggerire Milan Kundera con il titolo del romanzo che esce in quei mesi, "La vita è altrove". Oggi gli immigrati regolarmente residenti in Italia sono 5,1 milioni, ma - rileva Licata - c'è chi ancora chi rifiuta di prendere atto: «C'è ancora chi ne parla come un elemento che è arrivato ma che è destinato a passare prima o poi, quando a essere "passati", superati, a essere altro siamo noi, come popolo e come Stato».
Mentre sul lato politico si rincorrono soluzioni normative, in uno spreco di contrapposizioni e in un delirio di polemiche, la società italiana mostra di sperimentare, collaudare e esercitare forme assai efficaci di pragmatismo. «Ha inaugurato modelli vivendoli e non teorizzandoli». Nonostante gli attriti legislativi e le limitazioni amministrative, un milione e mezzo dì immigrati ha acquisito la cittadinanza e i cosiddetti nuovi italiani sono diventati tanto italiani da compiere le identiche scelte che una quota sempre crescente di popolazione adotta. Lasciare l'Italia. Dopo vent'anni di costante crescita, l'immigrazione si è quasi completamente arrestatá, gli ingressi dall'estero corrispondono praticamente alle uscite.
«Anche questo è un fenomeno in larga parte sconosciuto, - avverte Riccardi - ma molto significativo, perché rivela come le attese verso il nostro paese e la sua vita siano andate deluse oppure quanto le reti familiari di immigrati esercitino un'attrazione verso altri Paesi europei. Perché l'Italia non è un Paese attrattivo per questi immigrati?». Neanche per gli immigrati, verrebbe da aggiungere.
«Se all'assenza di arrivi si aggiunge il malessere demografico, lo spopolamento impetuoso, la resistenza alla ripartenza economica e occupazionale, la ricetta è davvero esplosiva. - è il timore di Delfina Licata - Per quanto ancora l'Italia potrà resistere attirando solo flussi turistici, ma non riuscendo a rendere permanente e stabile la presenza di chi arriva?». Finché non si saranno delineare politiche strutturali per trasformare la mobilità territoriale in mobilità sociale «La vera sfida alla quale siamo chiamati a partecipare è, dunque, quella di guarire un'Italia dalla migrazione malata trasformandola da mobilità territoriale in mobilità sociale» - e questo può avvenire innanzitutto declinando compiutamente il senso della cittadinanza.
«Non è pura appartenenza, non è immodificabile, ma è ibridazione, fluidità, dinamicità, varca i confini più e più volte, dall'Italia all'Europa, al pianeta tutto. Va e torna, e nell'andare e tornare si arricchisce senza perdere e semmai, a distanza di tempo e proprio grazie alla lontananza, ritrova elementi culturali, identitari, politici, sociali eccetera incardinati nel sè
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