"Il grido della pace" Bisogna riaprire il dialogo per uscire dalle guerre

L'intervento

"Troppo tempo ho abitato con chi detesta la pace. Io sono per la pace, ma essi, appena parlo, sono per la guerra". I versi laconici di un'antichissima preghiera della Bibbia esprimono tutta la fatica di invocare la pace di fronte al fascino della guerra. Chi chiede pace è additato come ingenuo, irriso, non di rado è accusato di essere un traditore. Apparentemente, tutti si dichiarano favorevoli alla pace, ma quando la guerra arriva si impone con la forza più banale, quella delle armi, sospinta dalla retorica bellicista e da un presunto realismo per cui il conflitto sarebbe connaturato alla storia dell'uomo e servirebbe a forgiare Stati e nazioni.
Anche prima che le nubi della guerra tornassero ad affacciarsi sui cieli europei con la tragedia ucraina, noi occidentali abbiamo vissuto la pace come un'illusione collettiva nutrita dall'indifferenza. Perché, intorno a noi, il mondo non era in pace. Si pensi alle guerre senza fine in Afghanistan, Siria, Libia, Yemen, come ai meno conosciuti conflitti africani. O ancora, alla violenza diffusa che ha reso invivibili intere città, intrecciandosi con il narcotraffico e la tratta di esseri umani. Come disse papa Francesco, eravamo già in una "terza guerra mondiale a pezzetti". Ma finché la guerra non è tornata a bussare alle nostre porte, non ci siamo granché interessati alla pace.
Dal 1989 abbiamo creduto che il mercato, secondo la vecchia tesi liberale secondo cui due Stati che commerciano non si fanno la guerra, fosse la panacea a tutti i mali. Invece una globalizzazione diseguale ha fatto crescere tensioni all'interno degli Stati e tra di essi, mentre i social media seminavano aspettative, frustrazioni, sogni infranti — spesso di fronte ai muri della fortezza europea e di quella nordamericana. Il mondo globalizzato, con le sue dinamiche inafferrabili, ha creato disorientamento anche nelle società più ricche, dove la sfida del pluralismo sociale e culturale si è intrecciata con la crisi economica, spingendo molti al ripiego identitario, resuscitando nazionalismi e fondamentalismi religiosi.
E' quella che oggi, in molti, chiamano deglobalizzazione. Nemmeno la pandemia e la crisi climatica sono riuscite a farci capire che siamo veramente tutti sulla stessa barca e nessuno, neppure il più forte, si salva da solo. Così, ora che sentiamo che la guerra è di nuovo affar nostro, ci scopriamo sprovvisti di parole e strumenti per costruire la pace. Mancano i leader, i punti di riferimento, se si eccettua papa Francesco.
Come fare la pace allora? E' un interrogativo semplice e complesso. Ma come si insegna ai bambini, il punto d'inizio è parlarsi. Nell'era della deglobalizzazione, le persone si chiudono e così fanno le nazioni. Allora, oggi come mai c'è bisogno di "mettere in relazione mondi diversi", ha detto Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di S.Egidio, presentando l'incontro "Il grido della pace" che si terrà a Roma a partire da domenica. Si troveranno in dialogo rappresentanti delle religioni, del mondo politico e della cultura, da più di cinquanta Paesi. La presenza del presidente Mattarella, di Emmanuel Macron, del presidente del Niger Mohamed Bazoum e di papa Francesco danno conto della rilevanza dell'evento e del bisogno di luoghi in cui poter intavolare un dialogo aperto e costruttivo sulle grandi sfide del nostro tempo. Una coraggiosa, paziente, inclusiva iniziativa di dialogo, è l'unica alternativa alla guerra. E ad essere realisti, non mi sembra che ne abbiamo molte altre. 

 

[ Giorgio Musso ]