L'armata del silenzio

Il ruolo di Pio XII nella seconda guerra mondiale. Le parole di Francesco sul conflitto attuale. L'imparzialità della Chiesa. Lo storico Andrea Riccardi riflette sul tacere come strategia per la pace.

E' appena uscito il libro di Andrea Riccardi, "La guerra del silenzio. Pio XII, il nazismo, gli ebrei" (Laterza), in cui viene affrontato un capitolo oscuro e controverso del Novecento sulla base di documenti consultabili per la prima volta. E un'opera che rappresenta certamente il culmine degli studi condotti nel corso di molti anni dall'autorevole storico e che è destinata a far discutere.
Il suo libro sul "silenzio" di Pio XII, un tema delicato e incandescente, viene alla luce da una lunga ricerca, resa possibile anche dalla riapertura degli Archivi Vaticani che, se fosse stata tempestiva, avrebbe evitato il consolidarsi di stereotipi e giudizi affrettati. Lei ribadisce che «il lavoro dello storico non è quello del giudice» e che occorre anzitutto comprendere.
«Il tema del pontificato di Pio XII e del suo atteggiamento nella Seconda guerra mondiale è oggetto di discussione da più di mezzo secolo. E' un topos della storia contemporanea. Tuttavia la discussione si è svolta finora senza potere utilizzare la fonte primaria della ricerca, gli Archivi Vaticani. La loro recente apertura, voluta da papa Francesco, ha schiuso allo studio un materiale immenso. Mi sono sempre chiesto se la lentezza nel mettere a disposizione questi archivi abbia giovato all'interesse stesso della Chiesa. Certo non ha giovato alla ricerca, che ha dovuto lavorare su fonti secondarie. Per quello che abbiamo finora visto, il materiale archivistico vaticano è di grande interesse. Non si trova un documento "esplosivo" ma, secondo me, esistono fonti ricchissime, non solo per scrivere la storia della Santa Sede in guerra, ma anche per la testimonianza che offrono sulle sofferenze e i dolori del conflitto. Penso alle lettere di chi domanda aiuto e descrive la propria situazione, lettere provenienti da ogni parte del mondo».
Che cosa significa "silenzio"? Quello di Papa Pacelli sembra inscriversi all'interno di un più vasto silenzio, quello sull'antisemitismo e sulla Shoah, di cui l'Europa non si è sbarazzata neppure dopo il 1945. Ma nelle sue pagine scopriamo che il Papa stesso accennava al proprio silenzio, parlandone, anzi, al plurale. Ci sono stati tanti "silenzi"?
«Ci sono tanti "silenzi" durante la Seconda guerra mondiale. Il papa stesso parla durante la guerra con monsignor Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, a proposito dei "miei silenzi" sul comportamento tedesco. Allora "silenzio" era anche un termine usato in Vaticano. Nel mio libro dico che, prima di tutto, ci sono i silenzi di Pio XII sulla Polonia, sofferti dai cattolici polacchi. I silenzi - cioè richiami ai principi più che condanne esplicite - si collegano all' "imparzialità" della Santa Sede in guerra: cercare di mediare per la pace tra combattenti e soprattutto assicurarsi lo spazio per l'impegno umanitario, che fu grande durante il conflitto».
Chi segue l'itinerario che lei delinea, passando per i decenni della guerra, non può far a meno di ammirare l'equilibrio esemplare con cui lei affronta le questioni più complesse. Tuttavia non si può dire che lei non abbia una propria posizione, che emerge là dove scrive: «Pio XII non ha parlato apertamente degli ebrei durante la guerra, ma ha operato per una politica di asilo e ha fatto pressioni diplomatiche su vari Stati Europei». Relegato in quella che lei chiama «l'isola vaticana», Pacelli ha operato nella misura del possibile?
«La mia posizione non vuol essere giustizialista. Nemmeno apologetica. Ma il compito dello storico non è giudicare, ma comprendere. Pierre Milza conclude su Pio XII con un'"assoluzione per insufficienza di prove". Per me non è questione di assoluzione o condanna. Certo ho la mia sensibilità, quella di qualcuno che ha conosciuto papi molto più interventisti, come Giovanni Paolo II o Francesco. Bisogna anche dire che il papato allora era un'isola nell'Europa nazista e che la sua "forza" era davvero debole».
Seppure indirettamente, il suo libro è anche un grande ritratto, con colori umani, di Pio XII. Un diplomatico? Un asceta? Un timido? Un pavido?
«Timido, un po' incerto, lento nel decidere, scrupoloso, un carattere mistico... Taluni nella Chiesa (non solo fuori) gli hanno rimproverato la sua lentezza nella decisione o i suoi toni diplomatici. Non va dimenticato che fu un papa popolarissimo in Italia e in Germania, specie dopo la guerra. A Roma, era il papa romano e il difensore della città. Tuttavia, in pochi mesi, la sua popolarità fu eclissata da Giovanni XXIII, papa bonario, umano, per nulla ieratico com'era stato Pio XII. Va ricordato che Roncalli, durante la guerra, lavorò moltissimo per aiutare gli ebrei ed ebbe una coscienza profonda del rapporto tra cristiani ed ebrei: questi sono per lui i parenti di Gesù». 
Pacelli non voleva pregiudicare i pochi spazi che restavano per fornire aiuti agli ebrei e per realizzare interventi umanitari. Era anche preoccupato per i cattolici tedeschi: avrebbero retto a uno scontro tra il Papa e il Terzo Reich? Ma c'era una certa impreparazione verso il nazismo, che non era solo barbarie, come oggi si dice, bensì un progetto teologico-politico. Aveva di mira tutta la tradizione giudeo-cristiana. L'attacco sferrato all'ebraismo preannunciava quello al cristianesimo. Lo capirono molto presto grandi filosofi come Hans Jonas. Paolo di Tarso e Gesù di Nazareth, in quanto ebrei, erano il bersaglio dell'antisemitismo nazionalsocialista. Pio XII ha sottovalutato tutto ciò? Ostacolato forse da secoli di antigiudaismo? E quanto avrà influito anche la sua tenace ostilità al giudeobolscevismo?
«Pio XII aveva chiaro che il cattolicesimo era, in caso di vittoria nazista, un obiettivo primario da colpire da parte di Hitler il quale, del resto, aveva progettato di invadere il Vaticano e deportare il papa dopo l'8 settembre 1943. Aveva chiaro il disegno nazista di strappare il cristianesimo alle sue radici ebraiche. Il giudizio sul nazismo nel suo insieme non era, però, del tutto consapevole - non aveva capito la realtà di quella "macchina infernale". Si sperava di agire ai fini della pace, specie all'inizio del pontificato. Mi riferisco all'ala più moderata. Si pensava, dunque, così, senza accorgersi che era un sistema totalitario».
Al di là del dramma del 16 ottobre 1943, quando gli ebrei romani furono deportati ad Auschwitz, colpisce il silenzio di Pio XII dopo il 1945. Lei stesso scrive: «Dopo la metà degli anni Quaranta la Chiesa non si misura con il dramma ebraico».
«Il comportamento della Santa Sede il 16 ottobre, giorno della razzia degli ebrei romani, che ebbe luogo sotto le finestre del papa, ci pone molti interrogativi. Fu un eccesso di fiducia nella diplomazia e in particolare nell'ambasciatore tedesco in Vaticano, un doppiogiochista che sembrava rappresentare il nazismo moderato. Il Vaticano credette di aver sottratto alcuni ebrei alla deportazione. È un episodio evidente di silenzio. Quello, però, che mi colpisce molto (e di cui poco si è parlato) è il silenzio dopo il 1945, allorché andava emergendo il dramma della Shoah. La Chiesa non si fece carico di un impegno contro l'antisemitismo, a cui pure venne sollecitata. Dopo la guerra si sentiva vittima della persecuzione comunista (e lo era davvero), mentre il dramma ebraico era secondario. Poi vari dirigenti comunisti dell'Est erano di origine ebraica: di qui il mito del giudeocomunismo».
Nel libro lei affronta una questione attualissima: il complesso ruolo dell'istituzione papale lacerata non solo tra i totalitarismi, ma anche tra i nazionalismi. Lei parla di "Internazionale cattolica". E distingue tra neutralità e imparzialità. La Chiesa non può essere neutrale come uno Stato, già solo perché i suoi fedeli sono presenti nei Paesi in guerra. Non si tratta, però, neppure di neutralità nel senso di indifferenza o equidistanza, come si usa dire oggi fraintendendo il pensiero pacifista, bensì di partecipazione attiva alla costruzione della pace. Il Papa può essere allora imparziale proprio in quanto interprete dell'aspirazione alla pace dei popoli?
«La Chiesa era l'unica internazionale durante la Seconda guerra mondiale, accanto alla Croce Rossa - però di tutt'altra ampiezza. II rapporto con le diverse Chiese nazionali doveva tener conto anche degli orientamenti degli episcopati, non sempre aderenti alla sensibilità di Roma. L'episcopato ungherese, come pure quello slovacco, erano molto prudenti, quando non si identificavano addirittura con i governi collaborazionisti. La Chiesa viveva in mezzo a quelle contraddizioni: partecipazione appassionata e anche rischiosa ai drammi della gente e imparzialità; diplomazia e impegno quotidiano; leadership morale e necessità del compromesso. Del resto, alcuni problemi si ripropongono anche oggi per il papato. La Chiesa continua ad essere ostile alla guerra: «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell'umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male», ha scritto papa Francesco nell'enciclica "Fratelli tutti". Non è facile interpretare concretamente il rifiuto della guerra e l'aspirazione alla pace nelle situazioni concrete. Si pensi all'Ucraina. Francesco cerca di essere vicino alla parte che maggiormente soffre, cioè gli ucraini, ma è pure attento alla Russia, interlocutore decisivo se si vuol uscire dal conflitto. Tutto questo rischia di spiacere agli uni e agli altri. Le contraddizioni esistono. Una volta diceva Giovanni Paolo II: «Le contraddizioni non sono mie, sono della storia». La posizione della Chiesa, che non accetta la logica bellica e il pensiero che ne consegue, rivela come la guerra è davvero un terreno impossibile per chi ha uno sguardo globale sulla realtà». 


[ Donatella Di Cesare ]