Sette anni di corridoi umanitari: la via legale che può diventare un modelloeuropeo

UNA VIA SICURA Il primo corridoio umanitario fu deciso nel dicembre 2015 e arrivò in Italia nel febbraio 2016. Da allora altri paesi europei hanno cominciato a sperimentare questo modello. La sfida per il futuro è applicare la strategia della sponsorship perché diventi un’alternativa reale per tutti. Ecco l'ottava puntata del reportage di Redattore Sociale in collaborazione con Acri

 “Devono arrivare in aereo, non rischiando la vita affidandosi ai trafficanti via mare o via terra”. Era il 29 febbraio 2016 quando per la prima volta questo slogan, tante volte ripetuto diventava realtà con il primo corridoio umanitario di profughi siriani dal Libano. Da allora il progetto, con cui l’Italia ha fatto da apripista, si è allargato sperimentando nuove rotte: due corridoi intraeuropei sono stati aperti da Grecia e Cipro. E in futuro si pensa a come applicare il modello dello sponsorship anche a chi arriva per motivi economici e climatici.
Ne abbiamo parlato con Daniela Pompei, responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i servizi ai migranti.
Il primo corridoio umanitario verso l’Italia è partito nel 2015 dal campo di Tel Abbas, in Libano. Com’è nata l’idea di sperimentare questa nuova via legale e sicura?
L’idea nasce da lontano, dal 2011 con l’emergenza dal Nord Africa e dal 2013 con il naufragio del 3 ottobre a Lampedusa, in cui persero la vita 368 persone. Da allora si comincia a ragionare su come trovare vie alternative per l’arrivo in Europa. Poi nel 2014 e 2015 con la grande crisi siriana e i grandi flussi da Grecia e Italia si verifica anche un significativo aumento delle morti in mare. Così un gruppo di Sant’Egidio inizia a lavorare per individuare uno strumento per consentire passaggi regolari. Abbiamo studiato la legislazione europea e individuato alcune norme che consentivano di far arrivare le persone in sicurezza senza modificare le leggi in vigore. Abbiamo pensato così di iniziare dal Libano, un piccolo paese a confine con la Siria che da sempre accoglie un numero altissimo di rifugiati.
Nel campo di Tel Abbas abbiamo incontrato la Comunità Papa Giovanni XXIII che lì opera con alcuni volontari. Il primo corridoio è partito da lì, da quel campo spontaneo e in cui le persone vivono da anni in condizioni terribili.
L’Italia ha fatto da apripista in Europa. È stato facile convincere le autorità a far venire le persone in aereo, considerando che in quegli anni si è registrato il maggior flusso di rifugiati verso l’Ue?
C’è stata una trattativa molto lunga. Noi ci siamo basati sull'interpretazione dell’ articolo 25 del Regolamento visti europei per motivi umanitari, abbiamo giocato su questa linea e sul modello già esistente in altri paesi come gli Stati Uniti e il Canada: quello della sponsorship. Inoltre abbiamo introdotto alcune novità: con le Chiese evangeliche e la Tavola valdese abbiamo proposto di occuparci noi dell’accoglienza e del viaggio. Inoltre per ogni rifugiato abbiamo pensato un percorso di accompagnamento personalizzato. Il governo italiano ha accettato e con l’allora ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, abbiamo iniziato a discutere. Alla fine di questa lunga trattativa il 14 dicembre 2015 c’è stata la firma del primo protocollo per mille persone e a febbraio 2016 ci sono stati i primi arrivi in Italia.
Spesso si parla dei corridoi umanitari come progetti virtuosi ma ancora “piccole gocce nel mare”. Cosa ci dicono i numeri?
È chiaro che i corridoi umanitari non sono la risposta a tutto il fenomeno migratorio, che invece richiede più risposte complessive. Però oggi i corridoi non sono semplicemente una “goccia nel mare” ma qualcosa di consistente, rappresentano un'alternativa proposta e realizzata dalle associazioni e dalla società civile, che può diventare una politica attiva dei paesi europei. In questi anni, solo con i corridoi, abbiamo fatto arrivare in sicurezza 5850 persone in Europa. Ogni uomo, donna, bambino ha un valore. Oggi queste persone fanno parte della nostra società. Inoltre oggi possiamo dire di aver aperto una strada, reale e concreta, istituendo anche delle procedure nuove e replicabili. L’Italia, per esempio, ha aperto sezioni in alcune ambasciate che permettono oggi di verificare le liste delle persone anche in termini di sicurezza e salute. È un progetto definito che si può ripercorrere. Per il prossimo futuro stiamo riflettendo su come utilizzare questo metodo di sponsorship anche per allargare i decreti flussi per chi arriva per motivi economici, per i profughi ambientali o per chi ha già parenti in Europa a cui appoggiarsi.
Da qualche anno la Comunità di Sant’Egidio ha iniziato a sperimentare anche i corridoi intraeuropei, in particolare dalla Grecia. Cosa ha reso necessario questo intervento?
Qualcuno ha definito le isole greche un limbo, qual è la situazione? Nel 2016 Papa Francesco visitò l’isola di Lesbo e decise di tornare dal viaggio portando sul suo aereo alcuni dei rifugiati presenti nei campi greci. Quello fu l’inizio del corridoio dalla Grecia, un progetto a cui stavamo già lavorando perché Lesbo e le altre isole sono effettivamente un limbo per le persone, che rimangono lì per anni senza fare niente. Per esempio, tra le ultime famiglie arrivate quest'anno ce n’è una sudanese con 5 figli. Quei ragazzi negli ultimi cinque anni non sono mai andati a scuola, oggi il loro desiderio più grande è studiare. La situazione di Lesbo è particolare e problematica, si tratta di una piccola isola che ha visto passare più di 800 mila persone sul suo territorio. Abbiamo pensato, dunque, che fosse doveroso anche sostenere quel paese.
L’ultimo corridoio attivato è stato poi quello di Cipro, un altro paese sotto pressione, in cui Sant'Egidio ha organizzato anche viaggi con i suoi volontari nel corso dell’estate. Da Grecia e Cipro abbiamo iniziato a portare anche minori non accompagnati, con procedure non semplicissime, anche perché una volta in Italia è necessario trovare luoghi di accoglienza adatti. Anche in questo operiamo in collaborazione con l’associazione Papa Giovanni XXIII.
Chi sono le persone che possono usufruire dei corridoi umanitari. Come avviene la selezione?
Il tema di fondo è la vulnerabilità: parliamo di donne sole con bambini, vittime di tratta, famiglie. Poi ci sono i malati e i nuclei con persone che necessitano di cure. Nell'ultimo arrivo dall'Afghanistan c’era una persona che è stata operata subito per un trapianto di fegato. A differenza dei reinsediamenti ufficiali, che contemplano solo le persone già riconosciute rifugiate da Unhcr, i corridoi umanitari riguardano anche i potenziali richiedenti asilo. Prima di ogni arrivo si fa un lavoro importante in diversi luoghi di origine e transito. Dopo il Libano e la Siria abbiamo allargato al Corno d’Africa e l’Afghanistan, poi ci sono paesi come la Libia, in cui non possiamo andare e da cui si possono fare però evacuazioni umanitarie.
Nell'ultima campagna elettorale si è parlato spesso di corridoi umanitari contrapposizione al salvataggio in mare da parte delle ong. Dal vostro punto di vista esiste questa contrapposizione?
I corridoi umanitari non possono risolvere tutto, servono più strumenti. Da soli non esauriscono il tema della risposta al flusso via mare, ma possono far trovare una via. Dalla Libia abbiamo proposto noi stessi di inserire nei protocolli la dicitura “evacuazioni /corridori umanitari” perché si possono fare entrambe le cose da alcuni contesti. Ora è necessario liberare le carceri libiche, superare ogni contrapposizione e lavorare in maniera più ampia. Noi abbiamo chiesto un impegno al governo, lavoriamo in collaborazione con Unhcr e Medici senza frontiere.
Dopo l’esperienza italiana altri paesi hanno aderito al progetto. Qual è oggi la situazione a livello europeo?
Oltre l’Italia il primo paese ad aver aderito è la Francia, con un primo protocollo di 500 persone e un secondo di 300. Poi c’è il Belgio con complessivamente 400 persone in due protocolli. Con la Francia abbiamo anche aperto il discorso sulla Libia. Tra gli altri paesi con cui collaboriamo c’è Andorra, che accoglie numeri piccoli ma lì le persone si trovano molto bene. In generale si stanno facendo passi in avanti.
Certo, a livello europeo i corridoi sono ancora una pratica dell'Italia, però ultimamente Ursula von Der Leyen li ha citati insieme a tutto il percorso di individuazione delle persone prima della partenza fino all'inserimento in accoglienza. Dunque, questo modello viene guardato con interesse come via di apertura. In futuro dovrebbe diventare una prassi consuetudinaria di tutta l’Unione Europea.