La scelta (ben ponderata) di non gridare forte

Pubblichiamo uno stralcio dall'introduzione dell'autore al libro «La guerra del silenzio. Pio XII, il nazismo, gli ebrei» (Bari-Roma, Laterza, 2022, pagine 361, euro 25).

Il 2 giugno 1945, con la fine della guerra, Pio XII tenne un discorso ai cardinali in cui rivendicava che la Chiesa non si era mai illusa sul nazionalsocialismo e che era stata perseguitata da esso. E concludeva: «Ma se i reggitori della Germania avevano deliberato di distruggere la Chiesa cattolica anche nell'antico Reich, la Provvidenza aveva disposto altrimenti». I dirigenti vaticani erano convinti di aver rischiato al massimo nell'aiutare i perseguitati, tra cui gli ebrei. Sembrava loro che il papa avesse espresso con chiarezza i principi della pace, condannando le azioni lesive dei diritti e dell'umanità dei popoli.
Ma in Vaticano arrivavano anche critiche sul comportamento tenuto durante la guerra. Non solo verso gli ebrei, ma soprattutto nei confronti della Polonia. Le proteste polacche (del governo in esilio, degli ecclesiastici, ma anche della gente) erano state numerose. Negli anni del conflitto, il governo polacco a Londra aveva costantemente sollecitato la Santa Sede perché intervenisse contro i nazisti e i loro crimini verso polacchi ed ebrei. Dopo la fine della guerra, gli ambienti polacchi all'estero trovarono invece un appoggio nella Santa Sede, che non riconosceva il governo filosovietico di Varsavia nel quadro della spartizione di Jalta. In Vaticano continuava a essere accreditato l'ambasciatore del governo in esilio, Kazimierz Papée, mentre gli Stati occidentali riconoscevano il governo "comunista" di Varsavia. Dopo la guerra, la Santa Sede non riconobbe la Polonia, che aveva nuovi confini rispetto a prima della guerra. Dal 1958, con l'elezione di Giovanni XXIII, Papée non fu più "gradito" dal Vaticano (analoga sorte subì il rappresentante del governo lituano in esilio).
Nonostante Pio XII fosse generalmente salutato, nel dopoguerra, come una figura di pace, difensore dei ricercati e degli ebrei, il tema dei rapporti con il nazismo preoccupava il Vaticano. Non si tratta di elencare qui, per rispondere alla questione dei "silenzi", com'è stato fatto in difesa di Pio XII, i tanti riconoscimenti ebraici verso il papa per l'aiuto offerto. Il problema dei silenzi è un altro, e non è in contrasto con le dichiarazioni di gratitudine e stima verso Pio XII. Non è solo una questione del mondo ebraico, ma è divenuta una problematica che riguarda i cattolici.
Il processo di beatificazione di Pio XII ha suscitato opposizioni nel mondo ebraico, ma nemmeno unanimi consensi nel mondo cattolico. Paolo VI annunciò in pieno Vaticano II la volontà di procedere alla beatificazione di Pio XII e di Giovanni XXIII. Il processo sulle virtù di Pio XII è stato aperto nel 1967 e affidato ai gesuiti. Si è proceduto con molta cautela (Paolo VI seguiva personalmente la documentazione delle sedute del tribunale presso il Vicariato di Roma). Il processo è stato completato da anni: a conclusione della prima fase, nel 1990, Pio XII è stato riconosciuto "servo di Dio" e, al termine della seconda fase, nel 2006, "venerabile", secondo la prassi.
D'altra parte non c'è una spinta alla beatificazione da parte dei fedeli, come invece per Giovanni XXIII (il cui villaggio natale è tanto visitato dai pellegrini) o per Giovanni Paolo II. L'eventualità della beatificazione di Pio XII, nonostante sia un fatto interno alla Chiesa, continua a suscitare seri problemi tra Chiesa ed ebraismo. Durante la visita di Giovanni Paolo II in Israele, il rabbino capo askenazita Israel Meir Lau chiese che non fossero beatificate «persone che hanno taciuto mentre il sangue ebraico scorreva». Lau ha avuto un intenso rapporto con Wojtyla, il quale — durante un incontro in Vaticano — gli disse di aver conosciuto suo nonno materno, il rabbino Frenkel-Teomim, e di ricordarlo mentre il sabato, a Cracovia, si recava alla sinagoga, circondato dai bambini.
Le autorità vaticane hanno lasciato andare avanti il processo di Pio XII con lentezza (mentre quello di Wojtyla ha impiegato solo sei anni), ma non l'hanno fermato. Il nodo sta nei "silenzi". Si ritorna, in qualche modo, al colloquio tra Pacelli e Roncalli nel 1941, da cui ho preso le mosse. L'alternativa ai silenzi era chiara anche a un diplomatico di periferia, come Roncalli: prendere o no posizione esplicitamente sulle crudeltà del conflitto. Roncalli, che trasmise a Roma notizie in proposito, era conscio del problema. La sua sede di Istanbul, in un paese neutrale, era un crocevia di contatti e di passaggi. Egli stesso si impegnò (ancora di più dopo il 1941) per gli ebrei, onde evitarne la deportazione e favorirne il passaggio in Palestina.
L'alternativa ai silenzi viene evocata da Roncalli il 19 ottobre 1942, quando annota nel diario, dopo aver preso visione di un cifrato vaticano: «Oh! Le pene della Santa Sede! Spesso non c'è che il gemito innanzi alle ingiustizie subite. Si potrebbe gridare più forte. Ne verrebbero altri guai». E' la tesi, ad mala malora vitanda, condivisa — sembra — dal prelato. La scelta di non gridare forte, onde evitare guai maggiori, non riguarda solo la gravissima questione dello sterminio degli ebrei, ma anche altri popoli che soffrono nel conflitto.
La Segreteria di Stato raccoglie in un documento alcune lettere giunte in Vaticano dalla Polonia nel 1940, in cui si manifesta il «sentimento di amarezza» nella Polonia occupata, fino all'«indignazione». Il Vaticano fa una politica realista, «che condurrà alla decadenza del prestigio della Santa Sede»: «Ci si domanda in Polonia se veramente il governo polacco non ha la possibilità di ottenere dal Vaticano l'abbandono di questa politica di silenzio; se non può ottenere una qualche manifestazione della Santa Sede contro il male che si fa in Polonia?». La lettera esprime una delle tante critiche al silenzio sulle atrocità tedesche in Polonia: si chiede di intervenire.
La vicenda polacca viene seguita con grande attenzione dal Vaticano, che ha numerosi riscontri di come non pochi cattolici polacchi percepiscano la Santa Sede fredda e distante rispetto al dramma dell'occupazione del loro paese. E' un altro "silenzio". La Polonia, nella geopolitica cattolica, è assai rilevante per lo stretto rapporto con il papa di Roma. Polonia semperfidelis: l'antemurale del cattolicesimo di fronte all'Est ortodosso.
Il "silenzio" è un termine e una realtà con cui i diplomatici vaticani fanno i conti fin dall'inizio della guerra. Prima di tutto, viene usato per la Polonia. Non abbiamo la certezza che Pio XII, parlando con Roncalli, pensasse agli ebrei; forse, invece, alludeva alle azioni persecutorie di Hitler contro i polacchi. In realtà "silenzio" è usato anche per indicare l'atteggiamento vaticano verso i comunisti. Nel settembre 1941, l'ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Bernardo Attolico (che aveva parlato anche con Pio XII) dice a Domenico Tardini, responsabile della sezione per gli Affari Straordinari della Segreteria di Stato (gli Esteri del Vaticano), che la situazione è cambiata con la guerra dell'Asse all'Urss. Parla "come cattolico": «se si capiva bene il silenzio della S. Sede ove quella guerra fosse stata breve, sembra, invece, opportuno, ora che la guerra è lunga, che ci sia una qualche manifestazione da parte cattolica contro il comunismo (che è indiscutibilmente ateo)». Tardini risponde: «Quanto al comunismo, è veramente ateo e condannabile. Ma condannabilissimo è anche il nazismo». Il papa non sarebbe contrario a far parlare un cardinale non di Curia sul comunismo, tuttavia notizie successive sulle atrocità naziste sconsigliano ogni intervento: «Non era più possibile far parlare soltanto contro il bolscevismo».
Ma cos'era la Santa Sede tra il 1939 e il 1945? Che cosa rappresentava il papato? Pur nella continuità più che millenaria, quest'istituzione cambia fortemente rilievo, presa e consistenza nel tempo. Uno dei rischi in cui si incorre, anche parlando di Pio XII, è fare riferimento a un"`immagine" del papato contemporaneo e non collocarlo nel tempo di cui si tratta.


[ Andrea Riccardi ]