A casa cantando l'Inno. Il ritorno degli ebrei liguri

La storia
Verso il 25 aprile. La gioia straordinaria nelle testimonianze dei genovesi sopravvissuti ai lager
«Mentre passavamo il confine cantavamo "Fratelli d'Italia`", perché ritornavamo qui e questo Paese era casa nostra». Il 25 aprile 1945 Piero Dello Strologo era un bambino di nove anni, profugo in Svizzera, dove era dovuto fuggire per scampare alla deportazione con la sua famiglia. In quei giorni faceva ritorno in Italia e negli occhi di quel bambino che attraversava il confine di un Paese appena liberato, alcune immagini restarono impresse con tratti indelebili. Mi raccontò l'episodio alcuni mesi prima di morire, nel gennaio di un anno fa, dopo una vita spesa alla guida della Comunità ebraica della nostra città e del Centro culturale Primo Levi, che aveva fondato e guidato a lungo. Dopo un periodo in un campo a Lugano, la famiglia Dello Strologo si trasferì nella svizzera tedesca dove venne aiutata da Lelio Valobra e Raffaele Cantoni, esponenti di spicco della resistenza ebraica e dirigenti della Delasem, l'organizzazione che assisteva e aiutava a mettersi in salvo gli ebrei in fuga.
Piero aveva il volto corrucciato quando ricordava il periodo a Lugano: suo padre era riuscito ad iscriverlo a scuola, ma doveva proteggerlo dagli insulti della gente per strada che insolentiva quegli italiani chiamandoli tutti "Mussolini". «Proprio a noi, capisci?» mi diceva, ancora ferito da quel ricordo. Ma poi sgranava gli occhi- quello sguardo timido, ma vivacissimo- e continuava: «Con il 25 aprile cambiò tutto tornammo in Italia quasi subito e ricordo benissimo quando attraversammo il confine tra Svizzera ed Italia. Un camion scoperto pieno di ebrei e tutti, ma proprio tutti, cantavamo a squarciagola "Fratelli d'Italia". Il senso di patria che avevamo allora era incredibile, è troppo doloroso essere dovuti andare via dal Paese che chiamavamo casa. Anche noi, noi più di altri ci sentivamo ed eravamo veri italiani».
Quella di Piero Dello Strologo è stata una delle voci che hanno testimoniato il dolore della persecuzione della Comunità ebraica genovese, ma, insieme al dolore, anche l'appassionato senso di appartenenza a questa comunità cittadina. Il 25 aprile 1945 c'erano anche loro, i cittadini italiani di religione ebraica. Molti, infatti, sfuggiti ai rastrellamenti nazisti, erano rimasti in città, rintanati in case di amici, nascosti da preti, vicini di casa, ospedali: spostandosi in continuazione per evitare le delazioni dei traditori, col pensiero ai parenti deportati nei campi in nord Europa.
Dal novembre 1943, quando scattò la retata nella sinagoga di via Bertora e venne arrestato il rabbino Riccardo Pacifici, e dopo la successiva circolare ministeriale a tutte le prefetture, furono 261 gli ebrei arrestati in Liguria (più del 20% degli iscritti alla Comunità), alcuni catturati in città, altri mentre cercavano di raggiungere luoghi sicuri, come la Svizzera: è l'evento che Sant'Egidio ricorda ogni anno con la Marcia della Memoria. Vennero concentrati nel carcere di Marassi prima di essere trasferiti su un carro merci a Milano ed essere poi trasportati cinque giorni dopo ad Auschwitz. Tornarono solo in venti.
Chi riuscì a fuggire, per due anni si trovò coinvolto in un angosciante balletto tra le vie della città e i paesi dell'hinterland per non cadere nelle mani dell'esercito nazista: ad aiutarli la Delasem, con il grande lavoro della "primula rossa" Massimo Teglio, e la curia genovese guidata dal cardinale Pietro Boetto, Giusto tra le Nazioni. Per questo, quando Genova venne liberata dalle forze partigiane e si concluse la Seconda guerra mondiale, la città ebbe come un sussulto e riprese a respirare.
Sono immagini note, notissime: la gente che esce finalmente per le strade, l'esultanza di fronte ai partigiani che sfilano per le vie del centro inquadrando i prigionieri tedeschi, l'arrivo delle jeep con le avanguardie alleate. Ma in quella folla entusiasta assiepata ai bordi delle strade che accoglieva i ragazzi scesi dalle montagne e i soldati angloamericani, qualcuno più degli altri si liberava dal peso della paura. Molti di quei bambini ebrei che esultavano insieme a tutti gli altri genovesi oggi non ci sono più, alcuni sono anziani e affaticati, ma restano i loro ricordi, seminati in anni di incontri con le scuole, di interviste, di conversazioni private: brevi flash, riannodati con pazienza e fatica in questi 78 anni. Testimonianza di un 25 Aprile che già dall'inizio aveva una voce plurale, quello di una festa di tutti.
Iole Arias era una bambina piccola, della Liberazione ricorda poco, soprattutto il pianto della sorellina nata proprio nei giorni prima dell'`arrivo dei soldati alleati: subito dopo il parto, l'ospedale venne colpito da uno degli ultimi bombardamenti. Le infermiere corsero ai rifugi e, nella concitazione, la bambina cadde. Pianse disperatamente per settimane, poi morì. La fine della Seconda Guerra mondiale, per Iole ha il tono acuto degli strilli di una neonata morente.
Vittoria Meshulan fino a poco prima di morire si commuoveva, ricordando la generosità della gente di Cortino, una frazione di Casella: tutto il paese si strinse attorno alla sua famiglia per proteggerla, anche a rischio di dolorose rappresaglie. «Il 25 aprile qualcuno iniziò ad urlare "è finita" e tutti uscimmo fuori a festeggiare. Ma in quel momento scattò l'ultimo bombardamento sul paese: io ebbi paura e pensai che la guerra non fosse conclusa». La memoria di bambina, dopo tanti anni, fissava ancora alcune immagini: «Ricordo chiaramente le rappresaglie contro i collaborazionisti: alcune donne vennero catturate e gli fu rasato il capo perché erano state amanti dei tedeschi». Il 25 Aprile, infatti, fu giorno di festa, ma anche di vendetta. La gente, poi, non aveva voglia di ricordare la durezza di quegli anni, preferiva guardare avanti. E i genitori dei bambini ebrei preferirono non raccontare troppo, per proteggerli dal dolore. «Abbiamo avuto un lungo periodo di inconsapevolezza - continuava - e solo molti anni dopo abbiamo iniziato a studiare, ad informarci. E con la conoscenza della Shoah è arrivato anche uno strisciante senso di colpa: "perché proprio io ero sopravvissuta?"».
Elisa Della Pergola che tantissimi studenti hanno incontrato nei lunghi anni di generosa testimonianza, nel 1945 aveva undici anni; dopo la deportazione del padre ad Auschwitz, era fuggita con la madre e la sorella cambiando in continuazione rifugio: Campomorone, Isoverde, Pontedecimo, poi via Canneto il lungo, Principe, Albaro, il seminario del Chiappeto. La liberazione arrivò improvvisa mentre si trovava in via Tabarca. «Il 24 aprile un tedesco bussò violentemente alla porta – raccontava spesso – e mia madre, che dormiva nel letto con me e mia sorella, stava per accendere il gas e far saltare in aria l'appartamento. Diceva sempre che avrebbe preferito morire con noi piuttosto di consegnarci a quella gente. Ma quel soldato voleva solo vendere le sue scarpe per fare qualche soldo: io non ne ero consapevole, ma era un segno del fatto che la guerra stava finendo. La mattina del 25 aprile sentimmo un urlo fortissimo: un uomo gridava in genovese "a l'è `ì'na grazia". Uscimmo di corsa e vedemmo le colonne degli alleati che arrivavano da Nervi. Noi strillavamo di gioia, loro ci regalavano cioccolato e chewing-gum».
Quando lo raccontava, si guardava le mani, come tornando indietro con la memoria: «Quella sera avevo la pelle dei palmi rialzata da quanto avevo battuto le mani». E poi si girava e continuava a parlare e salutare i ragazzi uno ad uno, a lavorare, ad aiutare le donne vittime di violenza. Come qualcuno che era sopravvissuto, era stato liberato, ma non guardava al passato. Non ne aveva tempo, aveva troppa fretta di contribuire a ricostruire un Paese. 

[ Sergio Casali ]