Guardare a una pace audace

Guardare a una pace audace

Intervista a Andrea Riccardi fondatore di Sant'Egidio. Reduce dal recente meeting di Berlino Andrea Riccardi rilancia il dialogo per un futuro di pace e di solidarietà
Abbiamo investito troppo poco nella diplomazia e nel dialogo

Il grido della pace nasce dal profondo, «perché sento che la pace è il tema del nostro futuro, perché bisogna avere visioni oltre il muro dell'impossibile». Sta in queste poche ma intense parole il senso del libro di Andrea Riccardi, Il grido della pace, edito per le edizioni San Paolo. Un libro intenso che ci invita a non dimenticare, a non abituarci alla guerra, a guardare a una pace audace. Come è emerso dal meeting a Berlino (10-12 settembre) promosso dalla Comunità di Sant'Egidio in cui donne e uomini di diverse religioni e culture hanno dialogato e lavorato insieme verso un futuro di pace e solidarietà nello "spirito di Assisi".

Studioso di storia e del cristianesimo, fondatore, nel 1968, di Sant'Egidio, Andrea Riccardi, ammonisce già dalle prime pagine: il XXI secolo non può e non dev'essere destinato alla guerra.
Professore lei sottolinea che la storia non è uno spartito già scritto. La storia è piena di sorprese. È un invito alla responsabilità di ciascuno?
«Credo che noi stiamo diventando troppo distratti come ci fosse un destino, come rassegnati al fatto che il gioco è delle armi. Abbiamo investito troppo poco nella diplomazia e nel dialogo, quasi rassegnandoci che dopo l'aggressione russa si potesse rispondere solo con le armi. Io sono convinto che questa guerra la sta pagando soprattutto il popolo ucraino, un Paese distrutto con 8 milioni di persone costrette a fuggire all'estero, ora ci vuole una fantasia alternativa che è la fantasia della ricerca della pace».
Lei puntualizza che non abbiamo più memoria, che, in qualche modo, avendo cancellato la memoria della guerra facciamo più fatica a concepire la pace...
«La riabilitazione della guerra è dovuta alla dimenticanza della coscienza maturata dopo la Seconda guerra mondiale e con la scoperta della Shoah. Sono morti i testimoni e sembra che la guerra sia diventata un gioco, una guerra pulita a distanza senza sporcarsi le mani, e questo è drammatico. Non abbiamo
elaborato quello che è accaduto nell'89, l'abbiamo rievocato nell'incontro internazionale per la pace di Berlino; è la cultura dell'89 quando un intero sistema è stato fatto cadere dalla forza della coscienza e non con la violenza. E questa è una lezione che abbiamo dimenticato».
Nel suo libro afferma che rispetto agli anni '60 - '70 fino all'inizio degli anni '80 c'era un'attenzione verso il senso di comunità, nascevano anche molti gruppi, diverse comunità, la stessa Sant'Egidio e che adesso questo senso di comunità s'è disperso.
«Direi di più, il processo di globalizzazione ha scomposto le comunità, il senso della famiglia, i partiti, i sindacati, le aggregazioni, le associazioni di qualunque tipo, oggi la gente è più sola e più concentrata sull'io, e questo è favorito anche dai social, dalla periferizzazione della vita. Oggi, in fondo, s'è dissolto un mondo di comunità intermedie e s'è realizzato un grande mondo dell'io che favorisce il populismo».
Un capitolo è dedicato a un appassionato cercatore di pace: Giorgio La Pira. C'è un La Pira oggi?
«La Pira si scopre dopo, in una prospettiva storica. La Pira vive ancora oggi. Le sue intuizioni sono le nostre intuizioni, le nostre idee, le nostre visioni, però La Pira si sentiva come trasportato dalle tensioni unitive del mondo del dopoguerra: la solidarietà internazionale, le Nazioni unite, l'Unione europea, il terzo mondialismo, il pacifismo, l'ecumenismo... oggi mi sembra si stiano inclinando queste tensioni unitive».
Lei ha dedicato la sua vita alla ricerca della pace: è più difficile oggi rispetto a quando ha incominciato?

«Io sono un po' diffidente nel fare confronti tra il passato e il presente. Il passato era molto difficile, c'erano guerre ingiuste terribili, penso a quella in Mozambico che ha fatto milioni di morti. Il presente ha caratteristiche nuove ed estremamente preoccupanti, un mondo che dobbiamo capire che va verso un futuro che non riusciamo facilmente a prevedere».
Professore Riccardi nel testo sottolinea che l'immigrazione è un fenomeno strutturale e non emergenziale. Dagli interventi anche a livello europeo si ha l'impressione, invece, che si continui a trattare la questione come un'emergenza.
«Fa paura uscire dalla logica dell'emergenza perché bisogna cominciare a considerare l'immigrazione come una componente del nostro futuro. Vuol dire che non è una questione di una stagione ma di lungo, lunghissimo periodo che riguarda milioni di persone. La crisi demografica del nostro Paese ci dice che da soli non ce la facciamo ad avere un futuro e allora l'emigrazione accompagnata da un forte lavoro di integrazione è di grande aiuto non solo per chi viene ma anche per il futuro del nostro Paese. C'è però uno spazio che è l'oggi, perché domani non saremo più capaci di integrare, saremo un Paese vecchio. Ma ora ancora abbiamo la capacità di integrare, io non ho paura di un futuro che sia nostro e degli emigrati, però dobbiamo aprire un percorso costruttivo e di unità».
E in questa visione quanto contano la preghiera e le religioni?
«Credo che ci sia una dimensione religiosa fondamentale nella vita delle donne e degli uomini e la preghiera nel cuore di questa dimensione fondamentale è la preghiera per la pace; la preghiera apre all'altro, ed è in tutte le religioni, con diverse espressività. Come dice Giovanni Crisostomo: la preghiera è l'arma più potente».
Da Berlino all'incontro che ha organizzato giunge potente l'invito a una pace audace. Cosa significa?
«È l'audacia della pace, perché ciò che è stato realizzato non basta, occorre una svolta fatta di audacia. E a Berlino personalità diverse e leader religiosi si sono ritrovati proprio in questo appello all'audacia».  
 

 


[ Chiara Genisio ]