Cambiare la società e il mondo col Vangelo

Cambiare la società e il mondo col Vangelo

Mondialità. Mezzo secolo di impegno a favore degli ultimi insieme alla Comunità di Sant'Egidio
Maria Quinto, docente di religione per la diocesi di Roma, racconta la sua esperienza in prima linea nell'accoglienza ai profughi

Maria Quinto, romana, docente di religione per la diocesi della sua città, è una volontaria della Comunità Sant'Egidio, realtà diffusa e apprezzata nel modo per la forte vocazione alla solidarietà e alla fratellanza universale. Maria ha il dono professionale della sintesi e della chiarezza: non è facile raccontare cinquant'anni di impegno, eppure lei riesce a farlo con delicatezza e sentimenti profondi.
Quando hai incontrato per la prima volta la comunità sant'Egidio?
«Nel 1974, avevo appena cominciato il liceo a Roma A quel tempo era uso raccogliere i libri di testo delle scuole medie per darli agli studenti delle borgate e delle periferie della città, e avevo partecipato a tale iniziativa, entrando quindi in contatto con il movimento giovanile di questa realtà».
Di cosa ti occupavi in particolare per la Comunità?
«Il mio impegno era rivolto soprattutto ai bisogni della periferia nord della città, dove un gruppo di famiglie viveva in baraccopoli a fianco alle case popolari; ricordo che mi era stata assegnata una famiglia, che era emigrata dal Sud, e che aveva 5 o 6 bambini: occorreva evitare la dispersione scolastica e fare attenzione che tutti si integrassero. Poi c'era l'impegno religioso».
Ti coinvolgeva molto?
«Inizialmente ero distante. A Messa andavo saltuariamente, oppure arrivavo tardi, a funzione finita. Però c'era già nel mio cuore l'invito pressante di Sant'Egidio».
Cioè?
«Prendere in mano il Vangelo e metterlo in pratica, col desiderio di cambiare la società e il mondo. In quegli anni in tanti volevano farlo, compresi i movimenti politici, ma poi rimanere fedeli alle premesse non si rivelò facile, furono in tanti a smentirsi».
Oggi, sempre nel Movimento, di cosa ti occupi?
«Di accoglienza e migranti; come Comunità Sant'Egidio abbiamo cominciato a recarci a Lampedusa dal 2011: a quel tempo tutto l'impegno dell'accoglienza era sulle spalle degli isolani e di don Stefano.Ricordi la tragedia, il barcone che affondò vicino alla costa?».
Amaramente.
«Arrivai quel giomo stesso a Lampedusa e mi fermai sull'isola per oltre un mese. C'era una sofferenza inimmaginabile.Sopravvissero solo 155 persone, ma il barcone ne trasportava oltre 500. I cadaveri furono quasi tutti recuperati, molti in condizioni indicibili tanto i corpi erano deteriorati».
Avrai visto scene indimenticabili e strazianti, Maria.
«Si vagava fra le salme, cercando di restituire loro, da parte dei sopravvissuti, un'identità. Con il parroco organizzammo una veglia, in cui sedevano fianco a fianco lampedusani e sopravvissuti: una preghiera per raccogliere e consolare il grido di dolore che saliva da quelle morti ingiuste.Fu allora che Sant'Egidio gridò ai nostri cuori: bisognava fare di più. Cambiare il modo di migrare, di partire».
Un'utopia?
«Assolutamente no! Molti di quei migranti sarebbero potuti arrivare diversamente: i parenti, già in Europa, avevano fatto di tutto per fare arrivare legalmente le loro mogli, i fratelli, i figli maggiorenni. Ma non c'era stato verso. Ricordo un tedesco di origine eritrea: era proprietario di una fabbrica con trenta dipendenti, e il fratello, insegnante, viaggiava in quel barcone. Lo trovò tra i morti. Eppure, aveva i mezzi per portarlo legalmente in Germania. A volte le cose non hanno proprio senso».
Come avete promosso il cambiamento?
«In quegli anni il governo fece una buona iniziativa, quella nota come Mare nostrurn, allorché collocò delle navi di vedetta sul Mediterraneo per soccorrere chi partiva dalle coste libiche. Noi, invece, ci mettemmo a studiare. Prendemmo in mano la normativa europea e capimmo che un aiuto poteva arrivare dai corridoi umanitari».
In cosa consiste questa azione?
«Concedere dei visti per i rifugiati, curandone intanto il viaggio e poi, una volta giunti a destinazione, garantire accoglienza ed integrazione. Ciascun Paese europeo può concedere questi visti per sìtuazioni ernergenziali. Ne abbiamo promossi anche in Belgio, nella Repubblica di San Marino, nel Principato di Andorra, oltre che in Italia».
Quanto è stato difficile cominciare?

«All'inizio eravamo intimoriti: l'impegno era gravoso. Poi abbiamo avuto il sostegno delle chiese Evangeliche e Valdesi, che ci hanno sostenuto grazie ai proventi dell'8 per mille. Gradualmente, in modo sorprendente, oltre i fondi che noi abbiamo iniziato a raccogliere, sono arrivate tante altre disponibilità: borse di studio, concessione per l'utilizzo di appartamenti in affitto, aiuti dai religiosi e dalle parrocchie. Solo in Italia abbiamo ospitato, con questo progetto 5.600 profughi o rifugiati, provenienti dal Libano, dall'Etiopia, e, a seguito del ritorno dei talebani in Afghanistan, dall'Iran e dal Pakistan, nonché da Cipro e dall'isola di Lesbo».
Ma come si organizza nello specifico un corridoio umanitario?
«Nei diversi paesi di transito, come in Libano, Etiopia, Pakistan, incontriamo le chiese locali, le associazioni, visitiamo i campi profughi, le città. Ai profughi spieghiamo che occorre abbiano l'idea di inserirsi nel Paese che li accoglie e quindi di impegnasi in un percorso di integrazione. I criteri per iscriverli nei corridoi umanitari, tuttavia, sono disciplinati dalle norme europee: la priorità per l'accesso va data alle donne con bambini, ai malati e agli anziani».
È un lavoro complicato?
«Generalmente dalle autorità politiche di quei Paesi c'è molta collaborazione. In Libano abbiamo realizzato un lavoro straordinario. Abbiamo individuato questo luogo perché, in percentuale, ha il più alto numero di rifugiati. Lì mi sono fermata per anni; a causa degli effetti della guerra nella vicina Siria, ho personalmente avuto un impatto crudele con la sofferenza: puoi immaginare, famiglie assolutamente normali, come le nostre, che d'improvviso perdono la casa ed ogni altro loro bene, a cui viene tolto tutto».
Mi parli di Siria ed io penso con grande nostalgia a padre Paolo Dall 'Oglio.

«La Siria era un Paese bellissimo, è stato colpito un percorso di pacificazione tra cristiani e musulmani che, da decenni, convivevano insieme. In quella parte di mondo si manifestano persecuzioni e discriminazioni. Certe volte mi dico: cosa sia la prigionia l'ho imparato sui libri, ed ora mi trovo davanti a persone che sono state incarcerate e sottoposte a torture, come in Libia e non solo lì».
La pace è un miraggio?
«I corridoi umanitari costituiscono una luce nella tenebra di questa sofferenza, anche per chi attende ancora di partire ma ha la speranza di poterlo fare. Però certo danno linfa alla pace: fra profughi, infatti, si ricostruisce il clima di una familiarità positiva e l'inserimento, accompagnato da interventi di integratone e di accoglienza, conduce, come dice Papa Francesco, ad una solidarietà nuova».
Che risultati avete della seconda parte del progetto, conseguente all'arrivo dei profughi?
«La gran parte dei profughi riesce ad avviarsi nel mondo del lavoro e ad essere autonomi in poco più di un anno. Le persone che accolgono vivono esperienze di gioia e vitalità nuove. Il dato più confortante riguarda soprattutto i bambini, che hanno ripreso l'opportunità di frequentare la scuola, in breve tempo recuperano lo svantaggio culturale».
Gli adulti fanno più fatica?
«Le norme non li aiutano, per esempio nell'inserimento lavorativo. Molti hanno il titolo di autisti, ma qui devono sostenere ugualmente l'esame della patente, con test complicatissimi: le domande sono esposte con un linguaggio estremamente tecnico, non è facile per gli stranieri comprenderle.Eppure sono esperti guidatori. Lo stesso vale per gli infermieri. In altri Paesi d'Europa le prove sono agevolate con traduzioni o esami specifici, in Italia non c'è ancora questa sensibilità».
Speriamo che si svolti in tal senso, allora!
«Al contempo vi sono anche buone notizie da parte delle comunità. Ultimamente, nelle zone di Parma e di Modena ci è stata chiesta, da parte di alcune fabbriche, la disponibilità di operai. Alcune famiglie vi si sono recate e hanno offerto loro case ad affitti agevolati. Si sono innestate nuove radici di solidarietà e alcuni paesi si sono ripopolati di bambini, dando un senso di futuro. Allora, hai la percezione che questa sia davvero la strada giusta, e senti di doverla percorrere sino in fondo...».


[ Eugenio Lombardo ]