Una memoria sovversiva

Una memoria sovversiva

Cronache Romane. L'incontro in Vicariato a 50 anni dal Convegno sui "Mali di Roma"
Perché ricordare ora un evento che per molto tempo si è preferito dimenticare
Perché ricordare un evento di cinquant'anni fa? Per molti anni, non si è voluto. Dopo i tre giorni, tra assemblee a San Giovanni e incontri di settore, ci fu una pesante reazione. Reazione del mondo democristiano, oppostosi all'evento, di Andreotti (critico di Poletti sino alla fine) e Fanfani (alla cui corrente afferiva il sindaco di Roma, Darida, uno degli accusati dei mali di Roma).
Il potente Sostituto della Segreteria di Stato, Benelli, suggerì a Paolo VI: «Meglio stare un passo indietro, senza sconfessare, ma anche, forse, senza incoraggiare». Notava che l'iniziativa era «all'insaputa della Santa Sede», soprattutto la conferenza stampa (che annunciò il convegno).
Un evento da dimenticare
Mai il Vicariato ha voluto ricordare l'evento. C'era la memoria di qualcosa di eccessivo, generatore di fratture. La storiografia però ha lavorato, riconoscendo l'evento fondatore di una Chiesa romana nella città, vorrei dire profetico nel senso vero della parola, interlocutore delle forze sociali e dei cittadini. Il febbraio '74 iniziò la stagione ecclesiale contemporanea: la memoria non è nostalgia, ma richiamo a quello che la Chiesa è e può essere a Roma. Permettetemi di quel che Roma è, perché Roma senza i cristiani è un'altra Roma. Quell'evento è scritto nella forma ecclesiale che la Chiesa ha preso a Roma e per questo c'è voglia di ricordarlo.
Era carente una cultura globale. Ma, a partire dai poveri, Di Liegro parlava alla città e faceva politica. E dietro a lui - lo si vide ai funerali nel 1997 - c'era un popolo.
Tra il febbraio '74 e Papa Francesco
L'evento è del 1974: «l'anno che cambiò l'Italia» - dice Casamassima: terrorismo, BR, attentati, compromesso storico, colpo di Stato in Cile, bombe... In quell'anno duro, la Chiesa compì un'operazione di grande significato, saldando vescovo e popolo nelle assemblee diocesane e in una condivisa visione della città. Ricompattò il tessuto lacerato della Chiesa, dall'isolazionismo delle parrocchie e dalla contestazione in una visione di Chiesa di popolo.
C'è qualcosa di bergogliano - anche Bergoglio di Aparecida - nel febbraio '74. Il nuovo Papa, il 13 marzo 2013, dopo l'elezione dice: «E adesso, incominciamo questo cammino: vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi».
Non è un caso che Francesco citi il convegno nella sua dimenticata lettera per i 150 anni di Roma capitale, un testo di gran contenuto: allora - dice - in «partecipate assemblee di popolo, ci si pose in ascolto dell'attesa dei poveri e delle periferie. Lì, si trattò di universalità, ma nel senso dell'inclusione dei periferici, la città deve essere la casa di tutti». 
L'assemblea aperta a tutti del '74 deve qualcosa all'assemblearismo del '68, ma è un metodo sinodale. Così lo descrisse don Riva: «Il convegno è un'assemblea popolare, ecclesiale sì, ma aperta a tutti, credenti e non credenti. I nostri lavori non partono da un documento ufficiale elaborato da un vertice...è stato convocato da un invito ad interrogarsi sulle responsabilità...».
Tema dagli echi bergogliani è la teologia della città, che attraversava i discorsi di Riva, Poletti, De Rita e Tavazza. Scrive il cardinale Bergoglio: «Essere popolo e costruire città vanno di pari passo...In tal senso l'immaginario teologico può essere lievito per ogni immaginario sociale», perché tra i dolori e  le contraddizioni urbane, «Dio vive nella città e la Chiesa vive nella città».
Il convegno del '74 guardò alle periferie "umane e urbane", come dicevamo a Sant'Egidio: «La città - nota De Rita - è distorta da una schizofrenia di fondo:  chi sta meglio ha il meglio, chi è marginale non ha quasi nulla». L'immaginario ecclesiale come lievito di cultura sociale, di senso comunitario della città e  di rinnovato impegno...De Rita, in una relazione molto laica, parlò di «una città culturalmente inerte, moralmente opaca, politicamente deresponsabilizzata».
Poletti concordava: «Roma è una città: ma, non è una comunità». La solitudine è denunciata: soprattutto degli anziani, soli o istituzionalizzati in condizioni di segregazione, uno dei problemi maggiori di Roma anche oggi. Il Vicario concluse: «La comunità cristiana si è mostrata...una voce efficace e, oltre tutto, nel suo dovere caratteristico di testimone del bene comune. Perciò il convegno è anche un'offerta di speranza. Tutti ne abbiamo bisogno».
Poco si è riflettuto sul legame tra i temi del febbraio e Bergoglio. Non ci sono legami diretti, se non il Concilio e la lettura fenomenologica della città da parte di una Chiesa che narra la condizione umana aprendola alla speranza. Insomma, promozione umana e Vangelo si connettono in un'unica storia e non si biforcano. La domanda è: può la chiesa creare cultura sociale? La risposta non è facile,ma lo può un movimento molecolare, nutrito di fede, pensiero, prossimità ai poveri...
Vescovo e popolo
 Il disegno di Poletti era una Chiesa locale con personalità. Il febbraio '74 fu un plebiscito di popolo in questo senso. quel che riuscì di più fu il nuovo stile in Vicariato: «A me piaceva vedere, in quel brusio continuo nei corridoi, l'immagine della iazza del villaggio, piazza di vita...». Poi si instaurò una «processione infinita, che durò 18 anni, durante la quale raccoglievo problemi, domande, attese, gioie, lamenti, proteste». Tutti «ben presto videro il nuovo cardinale arrivare solo, con la sua auto, senza apparati e formalità; pimo a tendere la mano nel saluto; sempre lieto di mettersi a parlare in mezzo alla gente, sorridendo, parlando, stringendo le mani. Credo che questo abbia giovato molto a presentare la Chiesa come popolo e famiglia di Dio». In una relazione alla Curia nel maggio '74 dice: «Se per molti anni il Vicariato è stato in un certo immobilismo...ora ne deve assolutamente uscire...»
Nel 1973, l'abate Franzoni, con la pastorale La terra è di Dio denunciò la speculazione a Roma e chiese una Chiesa non verticistica ma di vero dialogo. Poletti includeva. Il processo di inclusione toccava le attese di vari mondi: i movimenti molecolari e gli ambienti giovanili dopo il '68. Per Poletti va capita la crisi del '68: «ricca di illusioni per capovolgimenti radicali...carica pure di umanità doorante e amara....ha stimolato anche dialogo sincero e più autentico stile di vita, che nella Chiesa ha trovato e troca semore luce e sostegno.» Aggiunge: «In quei pochi anni di ribellione, ma anche di invocazione di aiuto, i giovani aggredivano la Chiesa, con una sorta di singolare amore, esprimendo bisogno di libertà da vecchie sovrastrutture formalistiche, e di maggiore amicizia e solidarietà. Invocavano a torto un Gesù Cristo giustiziere, portatore...di fraternità...».
Sembrò un'orgia di parole, ma un risultato ci fu: sentirsi comunità tra parti che non avevano mai comunicato o si erano scomunicate. Una voglia di esistere. Una moltitudine si mette a parlare, "prise de la parole" - avrebbe detto Michel de Certeau. Il cristianesimo non deve essere «imbelle o soltanto rassegnato». Molti chiedevano un gesto profetico. Poletti rispose che era il convegno, un "noi". «La comunità cristiana di Roma, per essere segno profetico, si mette nelle condizioni del suo Maestro». La Caritas, sotto la guida di Di Liegro, diventa un soggetto forte, non distinto dal Vicariato, ma non confuso.
Un ricordo o una premessa?
Perché ricordare quarant'anni dopo? La perdita della dimensione della storia, per una città e una Chiesa, significa smarrire la dimensione del futuro e la speranza. Il che provoca avvitamento autoreferenziale. Ricordare è decisivo in una Chiesa come Roma che, nel '74, ha l'evento genetico della sua esistenza contemporanea come diocesi. Non coltivare la memoria significa non coltivare la visione del futuro.
Qui il problema. Abbiamo avuto una visione del futuro? Diceva il cardinale Zuppi: la nostra vita è impostata troppo su una cultura del declino, che sembra sola a far fronte alla riduzione drastica: meno preti, fedeli, rilievo...Per questo bisogna riorganizzare e limitarsi. Ciò smorza la passione. La cultura del declino non rende attrattivi e genera necessariamente ulteriore declino. Tale cultura non è un fenomeno solo ecclesiale dovuto alla secolarizzazione. Ma è delle comunità, della città: la crisi - dice Sacks - di ogni noi in un mondo di io dolenti o esaltati.
Ha scritto un intellettuale meridionale, Franco Cassano: «Salvarsi in pochi, in un mondo nel quale si allarga l'egemonia del male, non solo è triste, ma è anche impossibile...Si tratta di scegliere i molti...». Roma ha conosciuto la fine di tanti soggetti, dei partiti, mentre il centro, che nel '74 aveva una funzione simbolica, svuotato, non l'ha più. Le periferie degli anni Settanta, contrapposte ai quartieri alti, non ci sono più; le borgate hanno perduto l'identità marginale. Si è realizzato un processo di periferizzazione e ingrigimento. Quando nel 1972, Ferrarotti scrive Roma da capitale a periferia, esistono la capitale e le periferie. Oggi è diverso!
Il sogno di Poletti, in una realtà dai tanti soggetti sociali come allora, era un rinnovamento che partisse dalla Chiesa come popolo e che considerasse le periferie luogo centrale. Oggi, la Chiesa, nonostante sia diminuita, resta una risorsa importante non più però in una Roma brulicante di soggetti, ma nel vuoto di un'atomizzazione indifferente. La Chiesa è ancora di fatto un popolo a Roma, realtà unica nella città. Proprio a Roma, ha una sua missione.
Oggi la Chiesa non è sfidata da nessuna grande organizzazione sociale. Ma il rischio è l'adeguamento all'irrilevanza della città. Può rappresentare una risorsa o ripiegarsi silente nell'appiattimento generale. Fa fatica a parlare e a trovare le parole, perché poco lavora sulla cultura e ha un linguaggio solo interno.
Non è facile. Non è solo il caso di questa diocesi. Ma qui siamo a Roma: c'è un dovere e una chance. Scrive Papa Francesco per i 150 anni di Roma: "Non possiamo vivere a Roma "a testa bassa", ognuno nei suoi circuiti e impegni. In questo anniversario di Roma Capitale, abbiamo bisogno di una visione comune. Roma vivrà la sua vocazione universale, solo se diverrà sempre più una città fraterna». Diceva il grande Mommsen, storico tedesco preoccupato nel 1870 della nuova capitale: «A Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti». Nel citato messaggio, Francesco ha prospettato una visione, che non è stata ripresa e sviluppata: «Assumere il ricordo del passato spinge a vivere un futuro comune. Roma avrà un futuro, se condivideremo la visione di città fraterna, inclusiva, aperta al mondo. Nel panorama internazionale, carico di conflittualità, Roma potrà essere una città d'incontro: «Roma parla al mondo di fratellanza, di concordia e di pace» (sono parole di Paolo VI).
C'è bisogno dunque di nuova iniziativa e passione. L'iniziativa matura in una visione della città. È` il punto decisivo e carente, la cultura assieme alla passione. Senza negare lo zelo di tanti.
 

[ Andrea Riccardi ]