In marcia per gridare «shalom»

Cartelli con i nomi dei Paesi ancora segnati da conflitti, portati come invocazione e insieme provocazione, fiaccole accese che, pur confondendosi tra le luminarie che addobbano le vie, segnano con umiltà ma con fermezza i passi della Marcia della pace che si apre dalla Cattedrale per giungere al santuario di San Francesco-del Prato. Percorso di memoria, che ha toccato anche luoghi simbolici, come piazzale della Pace e il monumento ai caduti di tutte le guerre, per approdare alla chiesa per quasi due secoli ridotta a carcere, che ha visto passare tra le mura ebrei, alleati, perseguitati dal regime fascista. Per tutti il ricordo di Simon Samuel Spritzman, nativo dell'attuale Moldavia, parmigiano d'adozione, ebreo e per questo rinchiuso e poi deportato ad Auschwitz, da cui miracolosamente fece ritorno. E poi il pensiero per l'Ucraina.
Scenari che, commenta Bruno Scaltriti, responsabile della Comunità di Sant'Egidio, ci invitano - come ricorda anche il Papa nel suo messaggio - «a lasciarci cambiare il cuore e a pensarci alla luce del bene comune». Di qui l'augurio che il 2023 sia l'anno «in cui ci pensiamo in un "noi" aperto alla fraternità universale».
Il clima di pace e di raccoglimento che si respira «in questa chiesa di pace - secondo monsignor Solmi - ci sollecita a mettere i nostri occhi negli occhi di Francesco, che ci parla di pace». Richiamandoci anche le radici: Cristo. L'oggi della guerra in Ucraina, così prosegue il Vescovo, deve farci ricordare i racconti, i ricordi e le sofferenza di chi anche in Italia ha vissuto la guerra. Invito a «tenerci desti, a essere sentinelle». E poi il richiamo alla preghiera che sempre il popolo ucraino innalzava per la pace, pensando ad una guerra, per noi lontana, per loro vicina. «Le cose dimenticate dall'opinione pubblica non sono dimenticate in una cultura che è coltura di morte».
Tenere desti i cuori, ma anche farsi sostenere dai testimoni di pace, per essere «operatori di pace». In questo confine tra pace e guerra, vita e morte, due testimonianze. Racconta Wadih, un giovane rifugiato siriano, ospite nel convento dell'Annunziata grazie ai corridoi umanitari, offrendoci qualche numero: la guerra iniziata nel 2011 ha provocato 400mila morti e 11 milioni di rifugiati. «Era bella la Siria, verde, con un clima mite. Prima la gente, anche di diverse fedi religiose, viveva insieme. Poi la guerra ha cambiato tutto». E' riuscito a studiare, anche se non era facile, tra esplosioni di razzi e colpi di mortaio, ma per non andare al fronte è scappato in Libano, dove è vissuto per quattro anni. «La vita da profughi è difficile», commenta. Poi la possibilità di venire in Italia, l'arrivo a Parma. «Spero che la guerra possa finire presto e possa riabbracciare la mia famiglia. Intanto posso stare qui, senza l'obbligo di dover andare al fronte». Esprime due desideri: «Tutti lavorino concretamente perché le guerre possano finire; che i rifugiati possano essere accolti».
La parola poi a Francesca, dei Giovani per la Pace (Comunità di S. Egidio) appena rientrata da Trieste, dove ha incontrato tanti giovani, provenienti dal Pakistan, Bangladesh, Afghanistan, sia nel campo profughi di Campo Sacro, che per le strade della tristemente nota "rotta balcanica": ha incontrato tanta «gratitudine, nonostante le condizioni pessime in cui sono costretti a vivere. In Italia hanno trovato un aiuto per tante cose, ma hanno faticato a trovare chi li stesse ad ascoltare». Così si è trovata ad ascoltare racconti di coetanei «senza opportunità per il loro futuro», e a vedere sui telefonini «pezzi della loro vita». Ma ha anche incontrato la disumanità che questi giovani hanno sperimentato, i cui segni, le cicatrici, erano ben visibili nel corpo e (forse meno visibili, ma non meno laceranti) nell'anima.
«Chi migra non cerca solo una terra, ma una patria». Di qui l'invito «a rompere i recinti che ci siamo costruiti e a guardare lontano, verso tutti, nessuno esduso». Parole che feriscono e smuovono, come l'elenco litanico dei Paesi in guerra (ancora e sempre troppi!), per i quali sono state accese candele attorno a un cero. Preghiera, invocazione, ma anche impegno, come sottolineato da frate Vanni Pistore, vicerettore del convento di San Francesco del Prato, portando i saluti di frate Francesco Ravaioli (guardiano, in viaggio in Terra Santa) e invitando l'assemblea ad alzarsi e a scambiarsi segni di pace, ciascuno cercando il contatto coi vicini: «Non possiamo parlare di pace a migliaia di chilometri» da scenari di conflitto «se prima non c'è pace tra noi, nelle nostre famiglie. La pace parte da qui, da chi ho accanto a me». Mentre nelle navate si diffondono le note del Canone di Pachelbel, ecco moltiplicarsi abbracci, sorrisi, strette di mano. 


[ Maria Cecilia Scaffardi ]