Mortali. Ma non per la morte

Una riflessione a partire dalla verità e dalla promessa della fede cristiana

"Non siamo fatti per morire, ma per nascere", scriveva Hannah Arendt. Per parte mia vorrei continuare affermando che siamo «mortali, ma non per la morte». Tutti certamente saremo trafitti dalla morte. Ma liquidata frettolosamente come un destino che ci fa finire nel niente, è un'offesa alla intelligenza. Per quanto fragili, vulnerabili, fallibili, noi esseri umani siamo vincolati da un patto d'onore con l'istinto presente in ogni persona a vivere per sempre.
E' vero che una manciata di intellettuali, nel cuore stesso dell'umanesimo europeo, si è impegnato a convincerci che non c'è alcuna trascendenza a questa vita, che non c'è per essa nessuna destinazione: la nostra vita si consuma e si estingue con il nostro organismo. Viene però da chiedersi come mai siamo stati — e siamo ancora in misura preponderante — così inguaribilmente sciocchi, visto che per millenni, proprio su questo argomento, abbiamo avuto un chiaro e inequivocabile istinto. Certo, siamo pieni di paradossi. Ma è così che siamo irriducibilmente "umani".
Siamo capaci di sbarrare la strada alle pulsioni della sopravvivenza e del godimento, per aprire tempo e spazio alle passioni dello spirito, alle ingiunzioni della giustizia, alle creazioni del pensiero, alla tenacia del voler bene. No, non siamo nati semplicemente per assecondare la vita, siamo nati per fronteggiarla, per aiutarla, per trasformarla, per renderla migliore per tutti e particolarmente per chi fa più fatica a vivere. Vale la pena perciò spendere così la propria esistenza, anche se richiede una responsabilità davvero alta. Non siamo una parentesi tra due nulla.
L'idea che ci siamo inventati una vita "oltre la morte" per anestetizzare la paura della morte è un'idea debole, troppo debole. Così come è debole pensare che ci siamo inventati "un dio" come proiezione dei nostri fantasmi di perfezione o dei nostri deliri di onnipotenza. Noi, uomini e donne, in effetti, cerchiamo di vivere sin da ora una vita degna della nostra "anomalia", in quanto esseri "spirituali", perché la potenza dell'anima che abbiamo misteriosamente ricevuto in dono, ci impone l'interrogativo sul senso della vita. La morte non è la fine: è un passaggio. Verso il compimento. Dei singoli e dei popoli.
Durante l'esistenza terrena, noi siamo chiamati, come in un tempo di iniziazione, a prepararci per vivere un futuro che ora percepiamo confusamente — "come in uno specchio", come in un "filtro oscuro", dice san Paolo — i riflessi di questa bellezza della immensa creatività di Dio alla quale siamo chiamati a partecipare, nel nostro passaggio alla vita secondo lo Spirito, per sempre. Dentro la nostra vita abita — e opera — una promessa — quella del compimento — che non ci siamo fatti da noi. E però, ce la trasmettiamo, irrevocabilmente, di generazione in generazione. Tutti la ereditiamo, la troviamo e ne viviamo.
Il tempo dell'orologio è ottuso e crudele. Il suo tic-tac sempre uguale è perfettamente indifferente alle storie di vita, insensibile alla vita che c'è dentro. Cerchiamo di mettercene sempre di più, ma ce ne sta sempre meno. Cerchiamo di fermarlo sul presente, e intanto lo acceleriamo convulsamente per non perderlo. Bisogna fare tutto subito, perché il tempo è sempre denaro e le opportunità sfumano rapidamente. Non ne abbiamo mai abbastanza (chissà poi per fare cosa?). In compenso, esso sembra aver preso un'accelerazione impossibile: non gli stiamo più dietro. Il tempo che passa, e deve essere inseguito affannosamente, ha una velocità che supera la nostra possibilità di controllo, di pensiero, di valutazione. E qui sta la sua crudeltà. Il tempo dell'orologio è pieno di scadenze e ride della nostra rincorsa. E' il tempo della pancia e delle emozioni, non il tempo della testa e dei pensieri.
L'eternità sperata per il compimento della vita secondo lo spirito, non è però da pensare semplicemente come una vita senza tempo. Certo, è liberata dal tempo dell'orologio, che rende irreparabile il passato, ottuso il presente, incerto il futuro. L'eternità della vita secondo la verità e la promessa della fede cristiana non è neppure una vita semplicemente "senza corpo". E' la vita che si dispiega in un "corpo risorto", ossia nella spazialità pura di una esistenza sensibile agli affetti, emozionata dalle scoperte, beata della prossimità di Dio con tutte le creature "visibili e invisibili" che prendono vita dall'affezione creatrice in cui vuole essere riconosciuto.
Purtroppo l'ossessione del presente e l'oscuramento delle "cose ultime" della vita ci rende apatici e aggressivi, nello stesso tempo, di fronte a tutte le "cose penultime". La destinazione della nostra vita chiede di essere, ad un tempo, redenzione e compimento. Senza redenzione, il compimento vivrebbe l'infelicità di una giustizia mancata che non può essere mai più riconciliata. Senza compimento, il riscatto non avrebbe destinazione che gli è dovuta. Nella professione della fede cristiana noi diciamo: «Credo la risurrezione della carne e la vita del mondo che verrà». Mai nessuno l'ha affermato in maniera così chiara. Non avremmo potuto annunciarla, se non ci fosse stata rivelata. Questa beatitudine della vita umana, che conferma la promessa di Dio creatore, è scritta a caratteri indelebili nel corpo risorto del Figlio Gesù.
Non si tratta di uno stato di conservazione energetica e luminosa dello spirito e della materia, ma della vita che deve venire e della resurrezione dei morti che devono abitarla. E' un habitat della comunità umana, non di anime perse. E crediamo che è il frutto della fatica e delle passioni, dei sacrifici e dei sogni, che abbiamo fatto insieme, per non cedere al nichilismo della morte e ai suoi frutti avvelenati. Il seme che trasformerà i nostri germogli in frutti maturi è posto dall'umanità del Figlio: il campo della sua semina è la nostra storia, non un altro mondo. Il Dio nel quale crediamo non desidera vivere senza di noi.
Per questo tutto si gioca attorno a Gesù di Nazareth. Chi si avvicina a lui, chi si lascia affascinare da lui, prima o poi giungerà a scoprire il grande dono che Dio ha fatto all'umanità inviando il suo Figlio. La memoria del Natale significa l'assunzione definitiva della "carne" (ossia dell'umano) da parte di Dio. Come non lasciarsi travolgere dallo stupore? 


[ Vincenzo Paglia ]