Dall'Iraq a Gerusalemme, la sfida di seminare fraternità

Nel secondo anniversario dello storico incontro tra il Papa e il leader sciita Al-Sistani, a Najaf tre giorni diconvegno promossi dalla Comunità di Sant'Egidio. E Francesco richiama l'universalità della "città santa"

Malgrado lo scarso risalto mediatico quell'incontro è stato davvero storico. Due anni fa, il 6 marzo 2021, papa Francesco era a Najaf, città irachena considerata santa dagli sciiti. Qui, sede della moschea di Alì, il Pontefice è stato accolto dal grande ayatollah Sayyid Ali al-Husayni alSistani. Ne è nato un colloquio nel segno dell'amicizia e della collaborazione perché - sottolinearono allora le note ufficiali - «coltivando il rispetto reciproco e il dialogo, si possa contribuire al bene dell'Iraq, della regione e dell'intera umanità».
A distanza di un tempo relativamente breve quell'abbraccio 
spirituale sta diventando un richiamo importante per chi crede nella cultura dell'incontro e chissà che non arrivi a omologare la data del 4 febbraio, "Giornata internazionale della fratellanza umana", a memoria del Documento firmato nel 2019 ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di alAzhar, Ahmad al-Tayyeb. Leader sunnita, cioè dell'altra grande componente, maggioritaria, del mondo islamico. 
Le ragioni quindi non mancano per considerare significativo il Convegno internazionale "Cattolici e sciiti davanti al futuro. A due anni dalla visita di papa Francesco in Iraq"; organizzato a Najaf dalla Comunità di Sant'Egidio insieme all'Istituto al-Khoei. Un evento iniziato l'8 marzo per concludersi domani e che ieri è stato contrassegnato da un messaggio del Papa ad al Sistani. A portare la lettera al grande ayatollah, il cardinale Miguel Angel Ayuso Guixot, prefetto del Dicastero per il dialogo interreligioso, e il fondatore di Sant'Egidio, Andrea Riccardi. 
Tuttavia l'incontro iracheno è anche molto altro, come dimostrano i temi in agenda, che nella seconda giornata riguardavano "il dialogo sulla vita" e il rapporto tra "religioni e società': «E' tempo di rilanciare la visione di un umanesimo fraterno e solidale dei singoli e dei popoli», ha detto l'arcivescovo Vincenzo Paglia. Tutte le religioni «ma in particolare quelle abramitiche - ha aggiunto il presidente della Pontificia Accademia per la vita - sono chiamate ad un confronto con il mondo della tecnologia», che si sviluppa con una velocità superiore a quella delle scienze umane, «offrendo quel contributo di sapienza che salva l'umanità dal cadere nell'abisso».
Di qui il richiamo su cui ha insistito il presidente della Comunità di 
Sant'Egidio, Marco Impagliazzo, alla necessità di aprire un varco nella «globalizzazione dell'indifferenza» denunciata spesso da papa Francesco e di rispondere a quell'insidioso «fondamentalismo dell'io» che deriva dal vuoto di cultura e dallo spaesamento che si vive nel mondo globale. Una condizione che non di rado può tradursi in cultura della paura, con il conseguente irrigidirsi sulle proprie posizioni identitarie. Anche nei luoghi simbolo della fede, come Gerusalemme di cui ieri è tornato a parlare il Papa.
Ricevendo il "Gruppo congiunto di lavoro per il dialogo tra 
Santa Sede e Palestina; il Pontefice ha sottolineato il valore universale della «città della pace». Una "vocazione" che il Papa ha richiamato a partire dal racconto evangelico del pianto di Gesù. Una sofferenza quanto mai attuale. «Quanti uomini e donne, ebrei, cristiani, musulmani - sono parole del Papa - hanno pianto e piangono ancora oggi per Gerusalemme! Anche per noi, a volte, pensare alla città santa muove alle lacrime, perché è come una madre il cui cuore non trova pace a causa delle sofferenze dei suoi figli». In particolare degli ultimi, dei dimenticati sui cui, imitando quella divina, deve scendere la nostra compassione. Perché - ha osservato Hussein al-Kazwini, dell'Alto seminario sciita di Najaf collegandosi idealmente alle parole del Pontefice - «ignorare il povero è come ignorare la fede».

 

 


[ Riccardo Maccioni ]