Dis/Integration al Carlo Felice così la fragilità diventa arte

Nel foyer del teatro le opere dei laboratori della Comunità di Sant'Egidio. Una riflessione sull'emarginazione vista da dentro

Mi guardano male perché parlo male e cammino male. Allora io li guardo bene. È questa la frase preferita di Delia: una delle scritte sui gradini che conducono alla mostra Dis/Integration, fino a domani nel foyer del Teatro Carlo Felice. Ma l'esposizione delle opere degli artisti dei Laboratori d'arte della Comunità di Sant'Egidio, curata dall'artista di fama internazionale César Meneghetti (le sue opere sono state alla Biennale di Venezia, al Maxxi, al Vittoriano) è più di una serie di quadri. È una riflessione sull'emarginazione, la diseguaglianza, la fragilità: vista da dentro. Vissuta, sperimentata. Come quelle frasi, scritte sulla pelle degli artisti.
E di Delia Gugole, e di Matteo Dominelli, che a Genova frequentano i laboratori artistici di Sant`Egidio e qui ci fanno da guida. «Ho conosciuto i laboratori attraverso il mio amministratore di 
sostegno - racconta Delia - a gennaio dell'anno scorso. In un anno, infatti, mi sono morti sia mia mamma che mio papà. E qui ho trovato amicizia: una famiglia». Matteo, invece, li frequentava gà da tanti anni. Gli piace scrivere, mettere su carta le sue riflessioni. Come quelle sulla mostra, dove gli artisti che frequentano i laboratori di Sant'Egidio a Roma - raccontano sulla tela cosa significa l'emarginazione.
Un quadro, Gli esclusi, è fatto con i cartoni dove trovano riparo i senza dimora: incollati ai margini di una tela brulicante di frenesia. Una società che non ha tempo di vederli. Delia, e Matteo, e il centinaio di persone che a Genova frequentano i laboratori artistici della Comunità - uno a Cornigliano, in via Gattorno, e uno in centro, in via San Giorgio - hanno tempi e occhi. «Parliamo di arte, ma anche di attualità. Di quello che pensiamo, delle emozioni che le opere suscitano», spiega Anna Storace, volontaria e anima dei laboratori. Uno dei quadri è l'autoritratto di un giovane profugo afghano, proveniente dal campo di Moria, sull'isola di Lesbo. Durante il viaggio ha perso una gamba. È riuscito ad arrivare a Roma, con la famiglia, attraverso un corridoio umanitario della Comunità di Sant'Egidio. Nel quadro imprime pennellate potenti. C'è il mare, sullo sfondo: lui ha il figlio in braccio, accanto c'è la moglie e l'altro figlio, e ha ancora la gamba.
Ma l'opera preferita di Delia e di Matteo si intitola Prendersi cura, è di Roberto Mizzon e Barbara Piccinini. C'è una donna, in piedi, che ripara sotto il suo mantello un uomo, rannicchiato, fragile. Delia e Matteo ci hanno riflettuto molto. Li colpisce, quel gesto: soprattutto perché lei, per coprire l'altro, rimane scoperta. Dare qualcosa, rinunciare a qualcosa di sé. «Eppure in realtà non ha perso niente, anzi. Non riesco a spiegarlo bene». Ma forse non c'è proprio niente, da spiegare.

 

[ Erica Manna ]