Il primo presidente democraticamente eletto è caduto. La gente protesta contro la Francia inneggiando a Putin. «Ma la Russia non c'entra», chiarisce l'esperto di Sant'Egidio, «la crisi è endogena»

La difficile situazione del paese nel Sahel dopo il colpo di stato del 26 luglio
Nella fascia del Sahel, che si estende da ovest a est sotto il deserto del Sahara, è crollata l'ultima roccaforte della democrazia. In questa parte poverissima di Africa, segnata da progressiva desertificazione, costante instabilità politica, frequenti colpi di Stato (cinque solo dal 2020, in Mali, Ciad e Burkina Faso), il Niger di Mohamed Bazoum, il primo presidente eletto democraticamente nel Paese, appariva come un punto fermo, un baluardo di relativa stabilità agli occhi dell'Europa. Invece, il golpe del 26 luglio - il quarto nel Paese - che ha portato alla caduta di Bazoum e all'ascesa al potere di Abdourahmane Tchiani, capo della Guardia presidenziale, ha deluso le aspettative dell'Occidente.
«Il giorno dopo il golpe, il presidente Bazoum al telefono mi ha detto: "È un colpo di Stato di pura convenienza, di opportunismo, con il solo scopo di saccheggiare le risorse del Paese. Sono ostaggio dei golpisti"». A raccontare è Mario Giro, politico, grande esperto di Africa - su cui ha scritto diversi libri -, viceministro degli Affari esteri nei Governi Renzi e Gentiloni, dal 1975 membro della Comunità di Sant'Egidio (per la quale ha lavorato molto nel continente africano). Nel 2010 Sant'Egidio fece da mediatrice tra le varie forze istituzionali del Niger, militari inclusi, per un accordo di pace, spiega Giro, per risolvere il precedente colpo di Stato e avviare la transizione democratica, che portò all'elezione del presidente Issoufou, al quale è succeduto Bazoum nel 2021.
«Era un'epoca molto diversa da oggi: qualche anno prima avevamo compiuto la stessa opera di mediazione in Guinea - che recentemente ha subìto un altro colpo di Stato -, avevamo partecipato alla soluzione della crisi ivoriana nel 2010. Allora, c'era ancora speranza nella democrazia, un consenso popolare che nei Paesi saheliani oggi è venuto a mancare perché la democrazia non ha corrisposto alle attese di sviluppo, speranza, futuro». In quell'area si sono verificate due ondate democratiche, «la prima negli anni Novanta che ha portato per la prima volta questi Paesi a elezioni pluripartitiche. In seguito, un'altra ondata intorno al 2010, anche come risultato di una nuova prosperità, quella della globalizzazione con l'arrivo dei cinesi. Tuttavia, tutto il settore pubblico ha continuato a impoverirsi, dalla scuola alla sanità. Si è imposto un iperliberismo che ha sgretolato il welfare a favore del privato, continuando ad approfondire le disuguaglianze. Tutto questo, a mio avviso, è stato all'origine dell'atmosfera che ha favorito i colpi di Stato».
Privo di sbocchi sul mare, con due terzi del territorio occupato dal deserto e quasi il 45% della popolazione - in totale circa 23 milioni di abitanti - sotto la soglia di povertà, il Niger vive di agricoltura di sussistenza e pastorizia, in una lotta quotidiana contro il cambiamento climatico. Ad aggravare lo stato di insicurezza, l`imperversare dei gruppi fondamentalisti islamici in tutta l'area saheliana. «L'ondata jihadista non è altro che un modo per colmare il vuoto lasciato dallo Stato, occupare spazi di potere creando alleanze locali e inserendosi nelle rivalità etniche. Nelle aree estremamente povere come Mali e Niger i jihadisti si sono diffusi nel deserto, tra le popolazioni nomadi e seminomadi, manovrati da cellule provenienti dal Nordafrica, da Libia e Algeria».
Per le strade, all'indomani del golpe, gli insorti hanno manifestato contro la Francia, inneggiando a Putin. Si può dunque leggere il golpe come un rigurgito antifrancese in favore della Russia?
«Mosca non c'entra con il colpo di Stato. La Russia lo ha chiarito, facendo appello al dialogo, e anche gli Usa lo hanno confermato. Mosca ha tenuto un atteggiamento corretto. E nessuno auspica un intervento militare. Quanto al gruppo di mercenari russi Wagner, per ora in Niger non è entrato. Wagner è presente in Siria, Libia, Mali e Repubblica Centrafricana. Le manifestazioni pro-Putin sono un messaggio all'Occidente, uno spauracchio per dire: "State attenti, perché se ci date fastidio noi possiamo andare a cercare l'aiuto di Mosca". La crisi del Niger è endogena: non c'è bisogno dei russi per far crollare il Governo di uno Stato africano poverissimo».
È pur vero che nelle manifestazioni c'è una reazione contro la Francia, ma, più in generale, contro l'Europa, perché Parigi ha un rapporto storico privilegiato con i Paesi del Sahel, ma tutta l'Europa è presente nell'area. «Il nostro errore di europei è stato quello di non sostituire anni fa la "Francafrique" con l'"Eurafrica"». Per l'Italia, il Niger rappresenta un partner strategico: a febbraio del 2023 l'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) ha aperto una sede nella capitale nigerina Niamey, con competenza su Niger, Ciad e Camerun. Militarmente l'Italia è presente dal 2018 con la missione Misin. Lo scorso maggio, a Niamey, presso la base militare della missione, monsignor Santo Marcianò, arcivescovo ordinario militare per l'Italia, ha inaugurato la nuova cattedrale dedicata a san Giovanni Paolo II. In un Paese a stragrande maggioranza musulmana (più del 98%), i cristiani rappresentano una minoranza esigua. «Ma i rapporti interreligiosi sono sempre stati buoni», ricorda l`ex viceministro, «non c'è mai stato un problema legato alla fede in Niger. E la minoranza cristiana ha resistito anche all'avanzata jihadista».
Quanto alle conseguenze del golpe per l'Italia, osserva Giro, «da anni Roma ha stabilito accordi con il Niger in funzione del controllo dei flussi migratori dall'Africa subsahariana. Di conseguenza, il colpo di Stato potrebbe provocare l'apertura di una nuova porta di passaggio dei migranti. Ricordiamo che il Niger ha una frontiera comune con la Libia, che rappresenta un portone aperto difficile da controllare per noi europei. Tuttavia, il nostro Paese gode di una certa simpatia nell'area e, se sa gestirlo bene, potrebbe usare il suo "soft power" per giocare un ruolo di facilitatore. Il problema è che l'Italia non ha ancora sviluppato una reale politica africana, se non in relazione alla questione migratoria. Ed è un errore trattare l'Africa solo dal punto di vista dei flussi migratori. Non è questa la strada per creare un rapporto nuovo con il continente africano, superando la logica neocoloniale».
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[ Giulia Cerqueti ]