I ragazzi del Cep allo sbando "Anche qui lo Stato non ci ascolta"

Il reportage
Nel sobborgo di Genova il malessere dei giovani tra furti, spaccio e autolesionismo. I residenti: "Mancano i servizi, non c'è un medico, un supermercato o un tabaccaio"
La testimonianza più cruda dal quartiere genovese del Cep è arrivata a febbraio. Con il soccorso a una persona che non riesce a muoversi autonomamente e i volontari della pubblica assistenza costretti a percorrere 400 scalini per portarlo all'ambulanza con speciale barella in grado di arrampicarsi sui gradini, lo "scoiattolo". L'ascensore che porta alle strade più in alto era guasto. E' quasi sempre guasto. Per la vetustà, il super utilizzo, gli atti vandalici. Il Comune si è impegnato a ripristinarlo ma si va avanti a rattoppi, perché non si può fare molto di più. Dario De Giorgi ha documentato tutto. Spiega: «Da quando sono venuto ad abitare qui ho deciso che non avrei lasciato sole queste persone». Così quest'ascensore di via Novella diventa il simbolo di un quartiere irrisolto, contraddittorio, difficile.
Il Cep, acronimo di Centro edilizia popolare. Chi abita qui non lo ama. Il nome preferito è Ca' Nuova. Quartiere nato alle spalle del ponente di Genova alla fine degli anni Sessanta, gli ultimi del boom economico. Nato per rispondere alla massiccia immigrazione del Sud. Palazzoni sgraziati, anche se con vista sul mare dalla collina, strade che si avviluppano senza apparente senso e finiscono nel nulla o tornano al punto di partenza. Non c'è una piazza. C'è una sorta di slargo, lo chiamano piazza ma non lo è. Uno di quei quartieri, commenta il responsabile della Comunità di Sant'Egidio Andrea Chiappori, «di cui si parla per una ventina di giorni quando in Italia succede qualche episodio in queste realtà disagiate e poi cala di nuovo il silenzio».
Tra gli anni Settanta e Novanta il tessuto sociale era composto dagli operai e dalle loro famiglie. C'erano associazioni, comitati, tanta partecipazione. Poi man mano chi ha potuto è andato via. E il Cep è diventato, come accade in molte realtà del Paese, una concentrazione di disagi. Il terminale di assegnazione di case popolari. Dove converge chi ha evidentemente dei problemi.
Racconta Sergio Casali: «Uno studente di Voltri, sul mare, mi ha detto: prof, io abito a un chilometro di distanza in linea d'aria ma sembra che in mezzo ci sia un muro». Casali è docente di religione al liceo scientifico Cassini ed è un volontario di Sant'Egidio. Conosce la realtà del territorio. Il Cep, dove i residenti sono circa 6.300, gli immigrati l'8 per cento, è il quartiere genovese dove c'è la maggior percentuale di giovani e giovanissimi. La ragione è intuitiva. Avere figli è uno dei requisiti per ottenere una casa popolare: «Ci sono tante donne sole con tanti figli». Ma qual è la loro esistenza quotidiana? «Il fenomeno di logoramento del tessuto sociale – insiste Casali – affiora per assurdo anche al livello di piccola criminalità. Tra i giovani emerge solo un malessere disgregato e sostanzialmente autolesionista. C'è qualche episodio violento, piccole rapine per procurarsi gli stupefacenti, ma nessuna capacità organizzativa». In un contesto di questo tipo, potrebbero accadere anche episodi gravi come quelli di Caivano? «Io – conclude Casali – non lo so dire, non ho una risposta. So che questi ragazzi possono essere una risorsa o un problema, tutto è nelle nostre mani».
Punta l'obiettivo su queste generazioni Carlo Besana: «I primi a non partecipare più alle nostre iniziative sono stati i ragazzi di 18 e 19 anni. Oggi anche quelli di 13 o di 14 preferiscono trascorrere le loro giornate in altri quartieri. A Voltri, a Pra', a Pegli. Tante famiglie li lasciano liberi già a quell'età di far quello che vogliono. Così diventa difficile fare un'opera di aggregazione e di educazione». E poi c'è l`effetto social: «Hanno modificato il concetto di amicizia e di comunità trasformando tutto in virtuale». Besana è un nome storico per il Cep. Nel 1995 ha aperto una farmacia nel quartiere. Due anni dopo è diventato il presidente del Consorzio Pianacci. Quasi un miracolo: il bar, poi la biblioteca, la scuola per stranieri, la festa che univa pesto e il cous cous, il doposcuola, i corsi professionali. Il Palacep, una tensostruttura che non se ne vedono tante. L'impegno, anche oggi che è presidente onorario, non è mai venuto meno. Ma intanto il Cep, che tanto difettava di servizi, si è ancor più immiserito. La farmacia esiste sempre, anche se ha cambiato mano. Ma è difficile lavorare se non c'è nemmeno uno studio medico vicino. Non c'è più un supermercato, non c'è più un tabaccaio. Per fare un po` di spesa bisogna prendere lo scooter, l'auto, più spesso l'autobus.
Ci fermiamo a parlare con un altro residente. Alfonso Leandri abita qui dal 1984, quando è arrivato con la famiglia. «C'erano i lavoratori, i poliziotti, tanta voglia di fare e organizzare per il quartiere. Tutto è cambiato e l'impressione è sempre che le istituzioni siano troppo lontane, che non ascoltino le nostre problematiche». Resta l'impegno di Sant'Egidio, che è qui dal 2008. Iniziative per i bambini poi per gli adolescenti e gli anziani. Il supporto scolastico con 150 volontari, soprattutto studenti dell'Ateneo, per le situazioni educative. Le visite dei docenti dell'Istituto di Tecnologia e del conservatorio. Prossimo progetto con la scuola? Un tempo super prolungato dove il 50 per cento degli studenti provenga da altri quartieri meno problematici, con il taxi gratuito. Il tentativo generoso di evitare l'effetto ghetto.

[ Marco Menduni ]