Solo la ricerca della pace è un progetto di futuro. Editoriale di Marco Impagliazzo

Solo la ricerca della pace è un progetto di futuro. Editoriale di Marco Impagliazzo

Parliamone insieme- Editoriale
Non possiamo rassegnarci alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. Occorre guardare negli occhi le vittime

Ha suscitato profonda commozione, durante l’Arena di Pace presieduta da papa Francesco lo scorso 18 maggio, l’abbraccio tra l’israeliano Maoz Inon, i cui genitori sono stati uccisi da Hamas nell’attacco del 7 ottobre, e il palestinese Aziz Sarah, che ha perso il fratello nei bombardamenti di Gaza. «Loro hanno avuto il coraggio di abbracciarsi. E questo non è solo coraggio e testimonianza di volere la pace, ma anche è un progetto di futuro», ha notato Francesco.
Sì, la pace è coraggio e futuro. Ed è bene ripeterlo in un tempo che non investe più nel linguaggio della diplomazia e del dialogo, ma confida solo nelle armi come strumento di risoluzione dei conflitti. La parola «pace» è stata cancellata dal vocabolario e dal dibattito internazionale, che è occupato dalla realtà della guerra.
Come ha scritto Andrea Riccardi, «si considera spesso la pace come un’aspirazione da “anime belle”, a volte apprezzate per l’ingenuità, a volte disprezzate o accusate di complicità con chi invade». Nel mondo c’è una grande sete di pace, anche se le vie per raggiungerla sembrano impraticabili, se non chiuse, per l’incapacità di chi si combatte di parlarsi e della comunità internazionale di mettersi in mezzo. Questa assuefazione alla guerra ci deve allarmare. Non possiamo accettare che le vittime civili – che sono la maggioranza in ogni guerra – siano considerate «danni collaterali», come ha notato con dolore papa Francesco incontrando gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede all’inizio del 2024. «Sono uomini e donne con nomi e cognomi che perdono la vita.
Sono bambini che rimangono orfani e privati del futuro. Sono persone che soffrono la fame, la sete e il freddo o che rimangono mutilate a causa della potenza degli ordigni moderni», ha affermato il Papa, invitando a «guardare negli occhi» le vittime.
Ecco perché vale la pena scendere nei rifugi in Ucraina, ascoltare i lamenti e le preghiere delle donne e dei bambini che vi trascorrono la notte, immedesimarsi in loro e provare tenerezza per le vittime innocenti di una violenza ingiusta, tanto più grande di loro, inaccettabile sempre, ma ancora di più quando coinvolge chi non può difendersi. Scriveva Dostoevskij: «Nessun progresso, nessuna rivoluzione, nessuna guerra potrà mai valere anche una sola piccola lacrima di bambino. Essa peserà sempre. Quella sola lacrima piccolina».
Come interrompere la macchina infernale della guerra? Anzitutto favorendo nelle nostre comunità e parrocchie un’insistente preghiera per la pace. Seguire le vicende dolorose dei Paesi lontani, con la preghiera e l’informazione, è una forma di carità, come insegnava san Giovanni Paolo II, che parlava di «spiritualità geografica». In secondo luogo, c’è una cultura di pace tra la gente da generare e fortificare per forzare l’indifferenza e il senso di impotenza. Occorre rilanciare con forza l’appello di Trieste, sottoscritto in preparazione della Settimana sociale dei cattolici italiani, da diverse associazioni radicate nel tessuto del nostro Paese. In quell’appello è stato chiesto alla politica di assumere l’«ostinato e creativo dovere» della pace.


[ Marco Impagliazzo ]