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November 11 2015

II pamphlet

Il legame perverso che annoda il potere alla pena di morte

Viaggio di Marazziti fra i «buchi» ideologici della pena capitale e la novità dell'Is che la usa come strumento di terrore universale Ecco allora che la battaglia per l'abolizione si legge nella sua forza rivoluzionaria

 
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Un filo rosso unisce la morte, la morte "sovrana", inflitta, procurata con la violenza, alla sua spettacolarizzazione. È quello che Michel Foucault ha chiamato «lo splendore dei supplizi», quella macchina rituale che «fa del corpo del condannato il luogo di applicazione della vendetta sovrana, il punto di ancoraggio per una manifestazione di potere, l'occasione di affermare la disimmetria delle forze». Un legame perverso annoda dunque îl potere, la messa a morte e il pubblico, il vero, ultimo, destinatario dello "spettacolo". Questo nodo resiste ancora oggi nella pena di morte. Non solo, esso è come esploso: il pubblico non è più solo quello fisicamente presente al supplizio ma è quello potenzialmente infinito, raggiungibile attraverso i mass media. Mario Marazziti (esponente storico della Comunità di Sant'Egidio con cui ha fondato la Coalizione mondiale contro la pena di morte) coglie quella rottura che segna un radicale cambiamento nella "grammatica" della pena di morte, non più concepita come meccanismo punitivo per sterilizzare il crimine, ma come propagatore del terrore su scala planetaria, come avviene in maniera parossistica nelle pratiche mortifere dello Stato islamico. «La pena di morte - scrive Marazziti - degli spot del Califfato nero sulle rive libiche, nel teatro di Palmira, nei deserti siro-irakeni è diventata moltiplicatore e propaganda scientifica del terrore a livello planetario. Un deterrente usato al contrario».
Quella che Marazziti consegna in Da Caino al Califfato: verso un mondo senza pena di morte (I libri di
Sant'Egidio/Francesco Mondadori, pagine 254, euro 18) è una microfisica della pena di morte e dei "buchi" ideologici che essa nasconde. «La pena di morte - scrive - non è solo una violenza irreparabile della vita umana, ma anche un'umiliazione per l'intera comunità. È un'ammissione di impotenza». Essa non rappresenta il culmine della giustizia, ma il suo naufragio. «La pena di morte non è uno strumento di giustizia perché colpisce sempre, in tutto il mondo, in maniera iniqua e sproporzionata le minoranze sociali, religiose, razziali ed etniche. È una forma di tortura mentale e fisica perché forza i condannati, nella loro mente a immaginare una, cento, mille volte il momento della fine della loro vita, anche per molti anni, molto prima della fine che arriverà. Abbassa tutta la società al livello di chi uccide e rende la società tutta, in nome di buone ragioni, assassina: anche chi, nella società, è contrario all'uso della pena capitale. Anche i tanti che non c'entrano niente».
Ma la storia della pena di morte può essere letta anche nel suo rovescio, ossia alla luce dei successi di una mobilitazione
sempre più pressante, che vede la Comunità di Sant'Egidio in prima fila. Una storia segnata, recentemente, da alcune tappe fondamentali. Il 23 ottobre dello scoro anno papa Francesco chiede
l'abolizione universale della pena di morte. Il 21 novembre, la Terza Commissione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva una nuova risoluzione per una moratoria universale delle esecuzioni, con 114 voti a favore, 36 contro, e 34 astenuti. Il 27 maggio di quest'anno lo stato americano del Nebraska vota l'abolizione della pena capitale.
Resta molto da fare. Come segnalato da Amnesty International, nel 2014 sono state registrate almeno 607 esecuzioni in 22 paesi. La maggior parte ha avuto luogo, nell'ordine, in Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Stati Uniti d'America. Pechino ha messo a morte più persone che il resto del mondo, ma la reale dimensione dell'uso della pena capitale resta sconosciuta in quanto coperta dal segreto di Stato. Se «la pena di morte è la legittimazione di una cultura di morte al livello più alto: quello dello Stato», essa non è un dato immutabile, né una realtà inscalfibile. La "battaglia" per la sua abolizione lo conferma. «Come per la schiavitù - scrive Marazziti -, è possibile immaginare un mondo senza più pena di morte».


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