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Christmas Lunch with the poor: let's prepare a table table that reaches the whole world

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September 8 2014 16:30 | Auditorium Elzenveld

La speranza fa parte della mia gioia di vivere



Gwenolé Jeusset


Franciscan friar, Turkey

 Verso la fine della prima guerra mondiale, mio nonno materno fu fatto prigioniero dai tedeschi, dopo essere stato colpito con il gas nelle trincee. Quando tornò nel suo paese avrebbe voluto andare a bere un bicchiere con gli amici che erano andati a prenderlo alla stazione, ma questi gli dissero: “No, Jean-Marie andiamo subito a casa tua, perché tua moglie sta molto male”. Lei aveva 33 anni. Prima della fine della notte si spense. Lui morì a 53 anni a causa di un’insolazione presa nel suo campo, durante la seconda guerra. Avrebbe mai potuto immaginare che i suoi figli avrebbero conosciuto la riconciliazione tra la Francia e la Germania? La speranza fa parte della mia gioia di vivere.

Vorrei rispondere al tema di questa tavola rotonda affermando, con l’esperienza di 45 anni di congiunzione di comunità cristiane e musulmane, ciò che mi sembra necessario per arrivare a un dialogo vero. Non c’è pace senza dialogo, diciamo, ma io aggiungo: non c’è dialogo senza incontro. 

Si può far tacere per un momento la violenza dell’altro attraverso armi da guerra più forti, ma non si può arrivare alla pace se non attraverso le armi della pace. Ormai da decenni sappiamo bene che la pace deve venire dal dialogo, sia a livello di nazioni che di persone e tra le due a livello di gruppi umani. Noi conosciamo anche l’importanza del dialogo interreligioso per far comprendere che lo sfruttamento del nome di Dio al fine di giustificare la violenza contro l’altro è la più grande offesa fatta al nostro Dio di cui noi conosciamo la misericordia e la tenerezza.

Quando, nel 1969, sei mesi dopo il mio arrivo in Costa d’Avorio, l’arcivescovo volle creare una commissione per le relazioni con i musulmani, domandò ai francescani di designare un membro della fraternità. La sorte cadde su di me.  Senza formazione islamologica, finii per lanciarmi e feci la conoscenza di un vecchio musulmano del Mali che parlava di incontro più che di dialogo. Non ho mai abbandonato questa parola, oggi meno che mai.

La parola dialogo è un concetto meraviglioso ma per molte persone evoca discussioni e pertanto la polemica non è lontana. La parola dialogo è meravigliosa ma è preferibile, perché sia vera, di giungervi senza rendersene conto. I gruppi di dialogo che resistono sono dei gruppi di amici. Non c’è dialogo di pace senza l’incontro, l’ascolto  rispettoso dell’altro e la volontà di fraternizzare. 

Il mondo muore per la mancanza di fraternità. Recentemente ho ricevuto una lettera, nella quale colui che si firma “vostro servitore”, afferma che io sono un prete traviato perché vengo a patti con il nemico e che invece di preparare una nuova battaglia di Lepanto preferisco il faro del grande incontro d’Assisi del 1986. Questo signore era alla presentazione del mio libro a maggio scorso e – barricato nei suoi pregiudizi -  mi ha scritto che ha immediatamente svelato l’ipocrisia dell’amico Said seduto vicino a me poiché per lui, è evidente, “sono tutti uguali”.

La generalizzazione è sempre irrealista, nello spirito di colui che crede che l’altro è sempre buono come in colui che crede che l’altro è sempre cattivo. Le due generalizzazioni sono irrealiste ma la generalizzazione negativa conduce direttamente all’odio e alla guerra. L’artigiano di odio ha bisogno di capri espiatori, quindi li crea. Rifiuta ogni possibilità di rimessa in gioco poiché il suo odio è divenuto un dogma e rifiuta ogni eventualità di incontrare l’altro demonizzandolo.

Per giungere al dialogo si deve osare l’incontro. Se uno rifiuta bisogna ricominciare con uno o un’altra e non concludere che “con quelle persone non c’è niente da fare”. Si deve osare di cercare il contatto e successivamente ascoltare l’altro nella sua interiorità. Ricercare i valori vissuti dall’altro conduce all’amicizia, poi alla fraternità, poiché allora si realizza un vero dialogo.

Il mondo muore per la mancanza di fraternità, e manca anche di contemplazione. Della contemplazione di Dio che vive nell’altro.  Nel mio itinerario spirituale tra i credenti dell’Islam, a Istanbul, il Signore mi ha condotto ad avvicinare un gruppo di dervisci ruotanti, discepoli del grande mistico Rumi di Konya. Quando fui certo, nelle mie visite alla moschea, che mi consideravano un frate cristiano e non un possibile catecumeno, domandai ufficialmente il permesso di pregare presso questi fratelli credenti. Da molti anni, quando vado al momento della preghiera canonica, mi fanno salire sulla tribuna dove mi unisco senza gesti né parole alla comunità verso la quale Cristo, attraverso la Chiesa, mi ha inviato. Io sono prete pregando per il popolo che è divenuto il mio nell’azione di grazia per tutto ciò che è bene e nell’intercessione per noi tutti.

In questo itinerario spirituale l’uno verso l’altro e insieme verso Dio questo gruppo di dervisci si unisce a me e ai miei fratelli francescani per una celebrazione interreligiosa ogni 27 ottobre, giorno anniversario dell’incontro di Assisi. La prima parte è quella dei frati minori, alcuni dei quali sono venuti da diversi continenti per un corso sul dialogo, la seconda una parte della danza rituale dei dervisci ruotanti. Dopo di ciò ci riuniamo nella navata e rivolti verso la porta grande aperta cantiamo “Signore fai di noi degli artigiani di pace” e ci scambiamo il bacio della pace.

Nel quadro del giubileo della mia ordinazione sacerdotale ho proposto a un mio amico di andare con lui in pellegrinaggio a Konya. Nel maggio scorso abbiamo meditato silenziosamente fianco a fianco per trenta minuti nel mausoleo del suo fondatore. Meno soli, abbiamo considerato ora di partire per vivere la stessa esperienza spirituale nello stesso slancio verso Dio, presso la tomba di San Francesco d’Assisi. A Dio piacendo faremo la nostra celebrazione comunitaria  a Roma e ad Assisi.

Abbiamo realizzato l’incontro, attraversato il dialogo proseguendo fino alla comunione più grande possibile nel rispetto delle nostre differenze di coscienza. Credo che il cammino del dialogo delle comunità sgorgherà dalla comunione di coloro che vinceranno l’odio.  

Ovunque le madri vogliono la pace ma non le si ascolta abbastanza. Una delle tre madri israeliane i cui figli sono stati assassinati ha telefonato alla mamma dell’adolescente palestinese bruciato per rappresaglia, la donna ebrea e la donna musulmana mi rimandano a tanti cristiani che rifiutano l’odio per romperne il cerchio. Ogni volta sento lo Spirito Santo sussurrarmi: “Contempla questo e continua, là è il Vangelo”.

 

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