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Let us help Rohingya refugees in Bangladesh

The Community of Sant'Egidio launches a fundraising campaign to send humanitarian aid to the refugee camps in Bangladesh, in collaboration with the local Church

Christmas Lunch with the poor: let's prepare a table table that reaches the whole world

The book "The Christmas Lunch" available online for free. DOWNLOAD! And prepare Christmas with the poor


 
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September 9 2014 09:30 | Auditorium BNP Paribas Fortis

Intervento


Armand Puig I Tàrrech


Catholic Theologian, Spain

1. Quale solidarietà?

Vorrei iniziare interrogandomi sul posto che occupa la parola «solidarietà» nel nostro tempo. In un discorso «politically correct» non è strano che qualche oratore menzioni questo termine in un contesto largo di valori sociali. Parlare della solidarietà riscuote consensi e persino lascia le coscienze tranquille. Ma occorre riconoscere che in molti casi non si va al di là di un moralismo tenue piuttosto svuotato di contenuti. Si sentono spesso affermazioni sulla solidarietà con tutta l’umanità, sull’egoismo come atteggiamento inaccettabile, sul fatto che non possiamo pensare soltanto a noi stessi. Sono riflessioni che si sentono nei media, nei centri educativi, nelle istituzioni religiose, nelle famiglie. 

Tuttavia, le domande ci raggiungono subito. Questi giusti discorsi, coinvolgono veramente quelli che li pronunciano? Sono discorsi che pretendono di aprire una breccia nel modo di fare e di vivere degli ascoltatori? Oppure si limitano a ricordare che ogni tanto, in certe occasioni speciali, quando i sentimenti si «riscaldano», sarebbe conveniente sottolineare la solidarietà? La solidarietà non è assente dalla vita di molte persone, ma non è neppure presente in modo continuato. Essa resta attaccata a momenti particolari in cui ci si chiede uno «sforzo» supplementare, un plus di generosità, un aumento della nostra capacità di fare il bene. Gli appelli alla solidarietà verso coloro che hanno subito un dramma nella loro vita, ad esempio vittime di catastrofi naturali oppure di malattie senza cura, provocano un’ondata di solidarietà, raccolta dai media.

Ma mi chiedo se possiamo accontentarci di un’ondata, oppure vogliamo che la solidarietà sia un mare, un  movimento di cuori che cresca in tutta la terra? La solidarietà, deve essere un’azione puntuale oppure un modo di vivere scelto da molte persone? Le spinte individualistiche diventano forti e potenti in un mondo globalizzato dove predomina il mito del «fai da te»: «abbi cura di te stesso», «realizzati», «trova da solo la felicità», «quello che non fai tu, non lo avrai da nessuno». L’individualismo si è impadronito della vita di molti, che sono convinti dei vantaggi dell’essere umano come isola. Si capovolge quella bella intuizione di Thomas Merton, «nessun uomo è un’isola», e si passa al discorso contrario: «ogni uomo, sia una isola», lasci che gli altri facciano il loro cammino, non entri nella vita delle altre persone –né a livello dei singoli né a livello della collettività. 

Così, ad esempio, in nome del principio della non ingerenza, paesi interi sprofondano nel caos, privi di salde strutture di governo e di sostegno dei cittadini, soprattutto i più poveri, senza che nessuno affronti veramente il loro problema. I 51 milioni di rifugiati nel mondo o le migliaia di morti di speranza nel Mediterraneo ogni anno testimoniano la «cultura  dello scarto», di cui parla lucidamente Papa Francesco, e mostrano i grandi limiti della solidarietà. Viviamo una solidarietà a balzi, quella che dinanzi alle difficoltà oggettive tace e scappa. Viviamo in un mondo di solidarietà intermittenti, circostanziali, effimere, dettate dal momento, che si avvicinano alla sofferenza ma senza prenderla su di sè, come fece il samaritano con l’uomo mezzo morto accanto alla strada. In un mondo dove piace tanto vivere come in un supermercato, dove si sceglie ciò che si vuole, anche la solidarietà diventa fragile, senza radici.

 

2. Le religioni: dalla misericordia alla solidarietà

Le religioni si affacciano sul mondo e scoprono i dolori, non intermittenti ma continuati, degli uomini e le donne del nostro tempo. Chiamate a interpretare le vie su cui cammina l’umanità e a trasformarle in sentieri di pace e di giustizia, le religioni non possono restare insensibili all’uomo ferito, perchè, se così fosse, non potrebbero stare davanti a Dio e al suo giusto giudizio. La solidarietà tra gli uomini appartiene ai credenti in Dio, come la pioggia che benefica i campi appartiene al cielo da cui scende l’acqua vivificante. L’invocazione a Dio è una risposta al grido degli uomini, la preghiera innalzata verso il Signore del cielo e della terra scaturisce da una umanità che spera un gesto di vicinanza. Il nome di Dio è pace, e il nome dell’uomo è solidarietà. Sí, il termine «solidarietà» significa qualcosa che si fa in comune, l’uno accanto all’altro, in armonia e mutua comprensione, ma anche mettendosi al posto dell’altro, abbandonando l’«io» dell’individualismo triste e rassegnato. La solidarietà è madre della gioia. Chi si fa solidale con l’altro, trova quel Dio che ha creato l’uno e l’altro. 

Le religioni mostrano come la solidarietà proviene dalla misericordia. Ritorniamo alla parabola del buon samaritano che prese su di sè l’uomo mezzo morto (Luca 10,30-37). Se ci interroghiamo sulle ragioni di quel comportamento, è chiaro che non contò in lui l’empatia etnica. Quell’uomo era uno sconosciuto: un samaritano come lui?, un ebreo?, un membro di un altro popolo? Neppure contò l’interesse. L’uomo mezzo morto non portava vestiti, e quindi non si sapeva se era povero o ricco, uno che avrebbe potuto ripagare il favore di essere portato in albergo e pure restituire i soldi che il samaritano aveva dato al padrone perchè questo ne avesse cura. Neppure contò la religione. Quell’uomo non portava nessun segno d’identificazione delle sue convinzioni religiose, come ben capirono il sacerdote e il levita che sono passati dall’altra parte del cammino. Il samaritano si è fermato e ha soccorso l’uomo sconosciuto «usando misericordia» (v. 37), perchè «lo vide e ne ebbe compassione» (v. 33). La chiave del racconto è la misericordia senza condizioni né restrizioni, fatta a un uomo anonimo e sconosciuto –senza documenti, diremmo noi–, in cui il samaritano ha riconosciuto un essere umano come lui. Avere misericordia significa riconoscere l’umanità altrui, uguale alla nostra. Perciò, la solidarietà, figlia della misericordia, è ampia e intensa, si estende a tutti (parola fortemente impegnativa!) e va portata sino alla fine (non si rifugia nella misura di quello che è prudente fare!). Le religioni, che hanno ricevuto da Dio il  senso della misericordia, comprendono la solidarietà come gesto di amore che coinvolge la vita di colui che riconosce allo stesso tempo Dio e l’altro in necessità.

 

3. Vivere per essere solidali 

Perché la solidarietà è una parola chiave del nostro tempo? La risposta è semplice: perchè è una parola universale, globale, radicata nell’umanità di tutti, perchè è un’azione a favore dell’uomo che può contenere tutti gli umanesimi, quelli religiosi e quelli laici. È un termine che raggruppa, che non disperde; che riunisce, che non divide; che fa incontrare e mette in campo ciò che di più bello portiamo dentro di noi: la capacità di commuoversi davanti all’uomo che nessuno difende. Un essere umano in necessità risveglia in noi sentimenti di misericordia. È vero che possiamo affogarli ma per cancellarli dobbiamo giustificarci, e si sa bene che le giustificazioni sono in genere argomenti che diamo a noi stessi per non fare quello che sappiamo che ci viene chiesto. In fondo, la solidarietà non è una scelta. La scelta consiste nel mettere in pratica quello che esce dal nostro cuore e agire in modo solidale. Ma la solidarietà, come la misericordia, è una evidenza, è una scintilla di luce che si accende, un momento di lucidità sul nostro rapporto con gli altri. Perciò la solidarietà appartiene al DNA di ogni essere umano. 

D’altra parte, la solidarietà è territorio comune a tutti gli umanesimi perchè nessun essere umano si può nascondere davanti al dolore di colui che soffre o davanti al senso di perdita di colui che si trova nella mancanza. Il dolore del mondo è un fondamento comune, di cui tutti si possono accorgere. Si può fare finta di non vederlo, si può concludere che non si è in grado di far nulla, si può allontanare dicendo che non é nostro compito guarirlo. Ma il dolore persiste, e la richiesta di solidarietà non cessa. In modo si direbbe mite, senza una domanda esplicita, l’uomo mezzo morto resta un segno di umanità, che ci fa più umani. Scendere dalla cavalcatura e occuparsi con affetto di esso ridà il senso di umanità vera. È uomo chi è solidale.

I grandi cambiamenti sociali, economici, tecnologici, culturali, che stiamo vivendo costituiscono un invito a cambiare molte cose. Siamo giunti a un punto in cui la solidarietà, iscritta nei cuori, deve emergere e contribuire a dare un futuro a questa umanità. La lotta tra il 1789 e il 1989 si è impostata sulla ridistribuzione della richezza. Occorreva che il proletariato avesse in mano i beni che fino ad allora erano patrimonio di alcuni. Bisognava dunque fare la rivoluzione e distruggere in modo violento le classi dominanti. Dopo la caduta del muro di Berlino la sfida è ora la condivisione delle richezze, come aveva auspicato da sempre la Dottrina Sociale della Chiesa cattolica e come ha ribadito Papa Francesco nella sua Esortazione Evangelii Gaudium. La solidarietà deve impregnare le menti e le volontà, in modo che le disuguaglianze diminuiscano grazie a un grande cambiamento di coloro che possiedono la maggior parte dei beni del mondo. Ecco la domanda: perché invece di vivere per essere ancora più ricchi, non si può vivere per essere più solidali? Una risposta positiva sarebbe per l’umanità un nuovo inizio.     

 

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