«Il Papa ha parlato alle istituzioni ma anche al nostro popolo, chiedendoci di essere orgogliosi della nostra cultura e di costruire insieme il futuro». Santino Spinelli, rom abruzzese di Pescara, non corrisponde allo “zingaro” che i pregiudizi ci portano a immaginare: è un docente universitario, ma anche un musicista e compositore. Quando l’ha salutato, Francesco gli ha fatto segno di “ok” con il pollice. Con fisarmonica, arpa e percussioni aveva appena eseguito il Padre Nostro in romanès insieme ai tre figli, due studenti universitari e uno delle superiori. «Mi commuove che siano i depositari della cultura che il Papa oggi ha difeso».
E di «richiamo alla responsabilità» parla anche monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes, sia per i rom sia per la Chiesa italiana «chiamata a una pastorale in uscita».
All’udienza Santino ha ritrovato amici spagnoli, ungheresi, irlandesi, ma anche rom arrivati dal Brasile, Argentina e India. Anthony Reinhardt viene dalla Germania e dice: «Il Papa ha ribadito che siamo nel cuore della Chiesa, non ai margini. Per noi sono parole importanti». Vicino a lui è seduta una donna slovacca. Indica il parlamentare rom che ha appena portato la propria testimonianza davanti al Pontefice: «Quello è il modello – dice la donna – per sradicare pregiudizi secolari».
In Sala Nervi ci sono rom affermati come Spinelli, il parlamentare slovacco e due vescovi rom, ma anche tanti che arrivano dalla vita dura dei campi. Corabia Ilie, rom romena che vive in provincia di Cremona, è scoppiata in lacrime di gioia quando il Pontefice le ha fatto il segno della Croce sulla fronte. Al suo arrivo si è accalcata alle transenne, ma all’ultimo momento ha lasciato il posto a un bambino che scalpitava per salutarlo. Il Papa ha notato il gesto e ha voluto benedire anche lei.
Corabia è venuta con la Comunità di Sant’Egidio, tra gli organizzatori dell’udienza. Ha vissuto per anni nelle baraccopoli di Milano, dove si muore per il freddo e per il fuoco. Lo ha ricordato anche il Papa nel suo discorso e Corabia ha pensato ai suoi quattro nipoti morti bruciati in un incendio a Roma nel 2011. Lei ricorda bene la fatica di vivere in un posto in cui manca l’acqua, la corrente elettrica, tutto: «Quando faceva freddo, i calzini appesi ad asciugare ghiacciavano. E ne servivano due paia – spiega – uno dentro le scarpe, l’altro sopra per non scivolare nel fango». Una sera il figlio aveva nascosto un biscotto sotto il cuscino: «Voleva essere sicuro di avere qualcosa per la colazione, ma di notte arrivò un topo enorme per prenderlo e gli morse tre dita». Sempre di quegli anni Corabia dice: «La fede mi ha aiutato a non perdere la speranza. Poi gli amici della Comunità di Sant’Egidio mi hanno aiutato a vivere in una casa: quando ho visto i miei figli dormire in un letto normale, ho pensato che Gesù era accanto a me».
Oggi i suoi bambini fanno il catechismo, sono stati battezzati e cresimati, mentre Corabia va ogni settimana in parrocchia a pulire la chiesa. «Lo faccio – racconta Corabia – gratuitamente e con il cuore. È come una catena: quando io avevo bisogno ho avuto fiducia in Gesù e sono stata aiutato, ora tocca a me».