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24 Novembre 2010

Condannati a essere stranieri in Patria

 
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Palazzo Ducale ospiterà oggi a Genova, un importante momento di riflessione sull’immigrazione che vede coinvolti in modo significativo gli avvocati italiani. Un’occasione utile per ricentrare il dibattito nella sua giusta prospettiva e non solo sul piano giuridico. Si parla infatti dell’immigrazione come di un’invasione che sarebbe necessario arginare, ma sembra che questa visione delle cose, per quanto diffusa, non sia realistica Come ha detto Daniela Pompei (responsabile dei servizi per gli immigrati della Comunità di Sant’Egidio) nel suo intervento alla conferenza barcellonese su “Migrazioni e futuro”, «le migrazioni non sono un fenomeno inevitabilmente scritto nel futuro dell’Europa». E’ quanto ipotizza anche Jeffrey Williamson, studioso di fama internazionale, il quale ritiene che sia ormai in esaurimento la fase di crescente mobilità umana migratoria degli ultimi decenni e che invece tra il 2020 e il 2030, gi arrivi dei lavoratori dai Paesi poveri subiranno una graduale riduzione, fino a scomparire entro il 2050.
Ricevuta la notizia, è da chiedersi se questa sia buona o cattiva; e l’interrogativo interessa sia quelli che sperano di divenire anziani tra il più necessari per la tenuta del 2030 e il 2050 (come il sottoscritto), sia i loro figli e nipoti, visto che già oggi in Italia si comincia a fare fatica a trovare colf o badanti regolarmente soggiornanti da inserire nelle famiglie. Ebbene, sembra proprio che se in futuro ci mancassero gli immigrati, ci mancherebbe il nostro stesso futuro. Gli stranieri sono infatti sempre più necessari per la tenuta del nostro welfare. Un welfare all’italiana, con i suoi pregi e i suoi difetti (pochi bambini al nido, pochissimi servizi per l’handicap, ma anche il più basso tasso europeo di istituzionalizzazione delle persone anziane) che risulta essere molto più welfare familiare che welfare istituzionale.
Sino ad oggi gli immigrati sono stati l’unica vera risorsa contro l’invecchiamento della società italiana; ma ora sappiamo che forse in futuro non ci basteranno più quelli che avremo. A questo proposito fanno riflettere le proiezioni Onu sull’Italia, la quale, con un ingresso annuo limitato a 150.000 stranieri, ridurrebbe comunque i suoi residenti nel 2028 alla più bassa soglia dei 55,7 milioni, contro gli attuali 60,2. Ma sarebbe una popolazione, oltre che un poco diminuita, molto più vecchia, con 14 potenziali lavoratori tra i 20 e i 59 anni per 10 over 60. Servirebbero dunque non meno ma più immigrati, per assicurarsi anche in futuro una forza-lavoro per il cui mantenimento in età prelavorativa, oltretutto, non spendiamo nulla.
Nonostante ciò, l’immigrazione è vista da molti come un’anomalia, una minaccia, una perdita della sicurezza nell’oceano delle diversità. E in effetti rischia di esserlo, come può esserlo una risorsa mal gestita. Come pure il petrolio, l’oro, i diamanti o il platino possono essere un problema in un Paese dalle grandi risorse ma privo di governanti capaci. Non c’è, dunque, solo bisogno degli immigrati, ma anche di una nuova cultura dell’immigrazione, dopo decenni di banalizzazione e involgarimento del discorso pubblico sull’argomento.
A questo proposito va sottolineato il problema delle seconde generazioni, composte in larga parte da stranieri ma non certo da immigrati. I minorenni stranieri regolarmente soggiornanti in Italia oggi sono circa 900 mila, di cui 530 mila nel nostro Paese. Di loro sappiamo che pensano e sognano in italiano, che parlano veneto in Veneto e siciliano in Sicilia, ma anche che vivono i problemi e le speranze comuni a tutti i giovani in Italia, più una; quella di riuscire a riconciliare la loro quotidianità italiana con il fatto di non vedersi riconosciuta la cittadinanza a causa dell’inadeguatezza della nostra legge. Purtroppo oggi l’unica significativa norma davvero dedicata all’acquisto della cittadinanza da parte delle “seconde generazioni” è quella di cui all’articolo 4, comma 2, della legge 91/1992, che funziona poco e male, consentendo solo ai nati in Italia di chiedere la cittadinanza al compimento del diciottesimo compleanno, purché dimostrino il possesso continuativo sia del permesso di soggiorno che della residenza anagrafica sin dalla nascita. Le poche proiezioni disponibili ci dicono però che su 100 ragazzi nati in Italia e qui ancora residenti al compimento dei 18 ani ben 42 rimangono stranieri, nonostante l’intera vita trascorsa in Italia, semplicemente perché non hanno, tutta intatta, la continuità di residenza anagrafica e di soggiorno per tutti i 18 anni che hanno vissuto in Italia. Così, ogni anno che passa, migliaia di diciottenni nati e vissuti in Italia rimarranno stranieri e avranno una buona ragione in più per recriminare contro l’unico Paese che conoscono e nel quale vivranno tutta la vita.
L’Istat ci dice che nel Nord del Paese, nel 2009, il 20% dei nati erano di nazionalità straniera. Dunque, se lasceranno immodificata la normativa sulla cittadinanza, nel 2015 vi saranno normalmente classi elementari composte per il 35-40% da stranieri che però, per la maggior parte, saranno nati e vissuti in Italia. Come si può pensare, in queste condizioni, di poter garantire o almeno aiutare il senso di comunità, che è (o almeno era) il vero volano di sviluppo del Nord d’Italia? Sono ormai in molti a chiedere l’urgente riforma di una legge che fa molto male all’Italia; e tra questi la Comunità di Sant’Egidio, promotrice assieme a Caritas Italiana, Fondazione Migrantes, Acli, Fondazione Centro Astalli e Comunità Papa Giovanni XXIII, di un appello a trovare la volontà politica trasversale di un cambio di passo.


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