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Credere La Gioia della Fede

15 Giugno 2014

Quando un fratello chiede rifugio

Intere famiglie scappate dalla Siria e giovanissimi eritrei in cerca di futuro: la Comunità di Sant'Egidio in prima linea nell'accoglienza dei profughi che arrivano a Milano

 
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Morow, 15 anni, trema di freddo anche se in realtà fa caldo. È scappato dall`Eritrea sei mesi fa, poi Etiopia, Sudan, Libia, barca, Sicilia e ora Milano. Indica un braccio ferito, che ha fatto infezione, e spiega: «È successo in Libia, lì è pericoloso girare per le strade». Fa il segno della pistola, puntando la testa con le mani. Accanto a lui, Abdou, 17 anni, tre fratelli più piccoli, sogna di andare in Norvegia per aiutare la sua famiglia. È partito quando aveva 14 anni ed è stato nove mesi nel terribile carcere di Kufra, in Libia, finché i parenti all`estero hanno mandato i soldi per pagare il riscatto e liberarlo. Mi dice che anche suo fratello Dejen ha preso una barca, ma non sa se sia rimasto in fondo al mare o in qualche parte d`Italia. Mi mostra la foto, chiedendo di cercare notizie su Internet.

Sotto gli alberi di piazza Oberdan, centro di Milano, Abdou e Morow ricevono una mela rossa e un succo di frutta dalle mani di Anna, universitaria, che con tanti milanesi in queste settimane si è unita alla Comunità di Sant`Egidio per stare accanto ai profughi eritrei e siriani che arrivano a Milano dalla Sicilia, dopo essere sopravvissuti ai barconi. Il capoluogo lombardo è una terra di transito: ci si ferma qualche giorno, in attesa di andare verso il nord (Germania, Svezia, Inghilterra, Norvegia...), dove ci sono i parenti e la situazione economica è migliore.

Durante il "grande viaggio", si rischia di morire nel deserto, in Libia, nel Mediterraneo, ma anche più a nord: il 7 maggio, a Calais, è morto soffocato in un camion un ragazzo eritreo di sedici anni che voleva raggiungere l`Inghilterra.

I volontari che si uniscono alla Comunità di Sant`Egidio sono giovani, adulti, anziani, persone diverse tra di loro, ma unite dal mettere al centro i poveri. Ogni sera portano da mangiare e da bere ai profughi eritrei che dormono per strada. Sono circa 150 per notte e rimangono nei pressi dello storico quartiere eritreo di Milano, in piazza Oberdan appunto.

Prima di distribuire cibo e acqua, i volontari si ritrovano attorno al volto di Gesù nella preghiera della Comunità. «Sì, perché la preghiera e l`amicizia con i poveri», spiega Giorgio Del Zanna della Comunità di Sant`Egidio, «sono profondamente legate. A Milano, i profughi sono arrivati inaspettati, inattesi, come il padrone della parabola del Vangelo che torna di notte e conta di trovare svegli i suoi servi. Anche i profughi sono arrivati di notte, nell`indifferenza, ma noi sentiamo che c`è un legame tra la nostra vita e quella di un giovane eritreo. Il suo dramma mi tocca, quello che faccio incide sulla sua vita e su quella della città. La preghiera, allora, riassume tutto questo: in essa c`è la nostra vita, la ricerca di bene, la città e i volti dei poveri, la gente lontana, distratta. Nella preghiera siamo collocati sempre in un orizzonte più largo della nostra vita, impariamo a guardare le cose con lo sguardo di Dio che guarda tutti, abbraccia ognuno, vuole che gli uomini e le donne vivano insieme. È uno sguardo largo che sa sperare sul mondo».

Come quello che racconta Ranea, una dei 7 mila siriani che dallo scorso ottobre sono passati dalla Stazione Centrale di Milano dopo essere sbarcati al sud. Lei, che ha perso un fratello ucciso dalle bombe, quando al secondo tentativo è riuscita a passare la frontiera con le due figlie, ha scritto un sms a un amico della Comunità conosciuto in Stazione: «Arrivata, sono in Norvegia. Grazie per la sera in cui mi hai detto che speravi con me. Dio ti benedica». Continua Del Zanna: «L`eredità della Pasqua è vivere la pace nella città, è la città del vivere insieme, senza divisioni. La pace è un luogo che diventa approdo per i naufraghi: significa accoglienza, simpatia, interesse». Sì, può essere anche una mela rossa data a un ragazzino che da tre anni ha lasciato la sua famiglia per cercare un futuro migliore.

Anche Flaviana, una maestra che ogni sera porta ai profughi la frutta avanzata a scuola, usa le parole del Vangelo per spiegare il suo impegno: «Fin dalla prima sera, ho incontrato ragazzi spauriti, senza sorriso, rispettosissimi, con tante necessità concrete e una lunga storia di pericoli, paure e violenze. Ogni volta, dopo il primo contatto, si aprono i sorrisi, e i gesti di "aiuto" diventano un legame d`intesa e affetto. Spesso in queste occasioni si comincia pensando di andare ad aiutare e poi si scopre che i gesti e le Scritture camminano insieme: "Avevo fame...", "Donna ecco tuo figlio...". Viene in mente Nicodemo che si prende cura del corpo di Gesù deposto dalla croce. Siamo fortunati quando possiamo stare vicino ai poveri».

Ogni sera, alcuni profughi sono accompagnati nei dormitori del Comune, ma i posti non bastano per tutti. Per questo, da alcune settimane, la Comunità pastorale Giovanni Paolo II (che riunisce due parrocchie del quartiere Melchiorre Gioia-Greco) ha deciso, insieme a Sant`Egidio, di ospitare 12 ragazzini in alcuni locali parrocchiali. Viene in mente papa Francesco che a settembre, in fila con i profughi alla mensa del Centro Astalli di Roma, aveva detto: «I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati».

Tra i dodici ospiti nella stanza della parrocchia, Jose, 16 anni, mi indica un sacchetto di plastica verde che contiene tutti i suoi averi: una maglietta, un cappello, una Bibbia e un Nuovo Testamento. Bacia i due testi sacri, dicendomi fiero che è cristiano copto-ortodosso e, sfogliandoli, mi mostra la parola di Dio sopravvissuta al viaggio in mare, scritta nella sua lingua, l`amarico.


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