Alle dieci del mattino il colonnato di San Pietro si riempie di centinaia di piccoli nomadi e delle loro mamme con le lunghe gonne fiorite e i vistosi orecchini dorati come i denti che scintillano qua e là dagli enormi sorrisi. E' sabato e, oltre ai turisti, numerosi romani visitano chiese e musei. «Per la prima volta le signore ci passano accanto senza stringersi forte la borsa» osserva il dodicenne Helver giocando fiero con il fazzoletto giallo intorno al collo. C'è scritto in rosso il nome di Ceferino Giménez Malia, l'unico beato gitano dell'empireo cristiano nato nel 1861 e ucciso durante la guerra civile spagnola. Helver non sa molto di lui ma ha ben chiaro che il suo 150 ° anniversario gli ha permesso di sedere a pochi metri dal Papa insieme a 2000 rom e sinti venuti all'appuntamento da venti paesi d'Europa. Un evento nella routine sgangherata del «campo di sosta» in cui vive alla periferia di Roma: «Non vedo l'ora di rivedermi questa sera in tv». Peccato solo che sia finita la scuola e debba aspettare settembre per farsi grande con i compagni.
Nessuno tra i fortunati ospiti dimenticherà le parole di Benedetto XVI: «Mai più il vostro popolo sia oggetto di vessazioni, rifiuto e disprezzo» ammonisce il Santo Padre nel silenzio dell'Aula Nervi gremita per la prima volta da una platea gitana. Il dialogo, continua, necessita la volontà dei nomadi d'integrarsi ma anche dalla fermezza dell'Europa nell'impedire il ripetersi delle persecuzioni passate: «Voi nella Chiesa non siete ai margini ma, sotto certi aspetti, al centro. Siete nel cuore della Chiesa, siete un'amata porzione del popolo pellegrinante di Dio e ci ricordate che quaggiù non abbiamo una città stabile ma cerchiamo quella futura». Lampi nella memoria di Ceija Stojka, austriaca d'origine e sopravvissuta ai lager di Auschwitz e Bergen-Belsen.
Nel pieno della tempesta politica sulla questione nomade e sulle paure che l'accompagnano, il Vaticano apre le porte ai senza diritti per i quali diversi uomini di Chiesa, a cominciare l'arcivescovo milanese Dionigi Tettamanzi, hanno già chiesto nei mesi scorsi maggiore tolleranza. L'udienza, organizzata dalla comunità di Sant'Egidio, dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, dalla Fondazione Migrantes della Cei e dalla Diocesi di Roma, vuole mostrare insomma l'altro volto di una realtà nota per i fatti di cronaca come il rogo del campo in cui il 6 febbraio scorso morirono quattro bambini o per le polemiche del genere rilanciate ieri stesso dal movimento di ultradestra Forza Nuova che, ironizzando sulla premura del Papa per i rom, lo invita a prenderseli tutti «attivandosi con una maxi-tendopoli in piazza San Pietro in attesa, magari fra mille anni, che questo popolo prenda coscienza e si adoperi a vivere in un contesto di civiltà e legalità».
«Ci sono nomadi che delinquono e brave persone, nomadi che portano i ragazzini a chiedere l'elemosina e mamme come me che nonostante l'acqua gelida del campo della Monachina li lavo ogni mattina per mandarli a scuola» afferma Elena Halelovic, 30 anni e 4 figli. La sua famiglia è arrivata dalla Bosnia mezzo secolo fa e lei, al pari del 50% dei 170 mila rom residenti nel nostro paese, è italiana: nata a Roma ma priva di cittadinanza. Almeno fuori dal Vaticano.