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Liturgia di ringraziamento per il 50mo anniversario della Comunità di Sant'Egidio

10 febbraio, ore 17,30 Basilica di San Giovanni in Laterano

 
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9 Settembre 2012 17:00 | Skenderjia, Main Hall

Intervento di Andrea Riccardi - Assemblea di apertura



Andrea Riccardi


Storico, fondatore della Comunità di Sant’Egidio

Non è facile vivere insieme se si è diversi. Questa difficoltà si manifesta in vari luoghi: provoca tante sofferenze. Eppure da tempo si proclama che tutti gli uomini sono uguali. La Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, ripresa infinite volte, affermava: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità…”.
E’ una convinzione proclamata dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948, che afferma: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Ma se uguali, perché è così difficile per loro vivere insieme? La proclamata uguaglianza sembra un’astrazione.
Gli uomini sono diversi etnicamente, religiosamente. Proclamati uguali, si sentono diversi. Nel profondo della loro identità sembra spesso scritto un destino: la difficoltà, talvolta l’impossibilità di vivere insieme. Molti di noi, essendo a Sarajevo, penseranno che alludo alla storia della Bosnia Erzegovina. Ma non solo. Vivere insieme tra diversi, purtroppo, non è un problema circoscritto a questa bella terra. E’ un problema molto generale, universale.
In tanti angoli del mondo, la violenza, impadronitasi dei cuori, ha creato tragedie tra chi si  sentiva irrimediabilmente diverso dall’altro, percependolo come minaccia. Le convivenze sono
diventate inferni. Il rabbino britannico Jonathan Sacks ha scritto: “Il virus dell’odio può sembrare addormentato per un periodo, ma difficilmente muore… così gli amici diventano nemici, i vicini di casa contendenti”. Ci si scopre diversi e ci si odia.
Come vivere insieme dopo questi drammi? Uscendo dal Memoriale dei massacri in Ruanda, a Kigali, mi sentivo dentro questa domanda: “come potranno vivere insieme dopo quanto è successo?”. La diversità crea spesso divorzi, muri, esodi di popolazione.
Sarajevo è stata però, per lunghi secoli, una città di convivenza tra musulmani, cristiani ortodossi, cattolici, ebrei. Si viveva insieme. Il Gran Muftì Ceric ha parlato di un patrimonio comune tra diversi. Un abitante di Sarajevo ricorda quel vivere insieme:  “Vivo da 40 anni nello stesso quartiere… a due passi da un’antica chiesa ortodossa e da una moschea del XVI secolo. E salendo appena, da casa mia, raggiungo il seminario cattolico. Prima della guerra, quest’armonia, nata dalla differenza, si ritrovava nella vita d’ogni giorno…”.
All’inizio del Novecento, Sarajevo era una città tranquilla, quando il mondo si volse improvvisamente verso di essa per l’attentato che scatenò la prima guerra mondiale. Allora la storia ripartì brusca e violenta da Sarajevo. Parecchi hanno scritto a ragione che la storia del Novecento è segnata da Sarajevo: da qui è partita e qui si è chiusa. Tre guerre terribili combattute in questa terra (e una generazione le ha conosciute tutte e tre). Suo malgrado, con tante sofferenze, Sarajevo è divenuta simbolo del nostro tempo.
Siamo consapevoli che la memoria delle dolorose e recenti vicende di guerra non trova concordi le comunità della Bosnia Erzegovina. Dobbiamo essere onesti. Ci sono differenti memorie. Tutte abitate dal dolore. Tutti hanno sofferto. Il dolore è scritto nei cuori di tanti anziani, adulti. Il dolore di tutte le madri è uguale: unisce memorie differenti.
A nessuno quindi sfuggirà il valore di questo incontro di oggi a Sarajevo tra genti di religione diversa, di memoria diversa, ma che tutte hanno tanto sofferto. Tutti cogliamo il significato straordinario dell’incontro tra leader e genti della Bosnia Erzegovina: musulmani, ortodossi, cattolici, ebrei. O il valore della venuta a Sarajevo di Sua Santità il patriarca Irenej, che saluto con rispetto. Queste significative presenze dicono come le religioni non vogliono essere utilizzare sacralizzare i muri tra le diverse comunità.
E’ un incontro, il nostro, reso ancora più straordinario dalla presenza di uomini e donne di religioni, provenienti da tutto il mondo, raccolti nello spirito di Assisi. Il convenire di tanti credenti diversi non corrisponde a un costume politically correct di dialogo. Non siamo stanchi di vivere questi incontri di città in città, ogni anno dal 1986, perché il dialogo é cruciale per costruire una civiltà vera in un mondo globalizzato.
A Sarajevo, si capisce la fatica di vivere insieme tra diversi. Mi ricordo che il card. Puljic, nel 1993, al nostro incontro interreligioso di Milano parlò da testimone di una guerra in corso: “quant’è difficile pronunciare la parola stessa ‘pace’ là dove l’unica parola è lo scoppio delle bombe, l’urlo dei feriti, lo strazio della fame, la disperazione della gente che si sente come se fosse abbandonata da Dio e dagli uomini”. Giovanni Paolo II, che aveva conosciuto la guerra e la Shoah, insegnava: chi ha vissuto la guerra testimonia con più convinzione il valore della pace. Chi ha sofferto la guerra, capisce il valore del dialogo.
La presenza qui di esponenti religiosi differenti rivela come, dalla profondità delle religioni, scaturisca un messaggio di pace, fondato nelle diverse tradizioni religiose. Lo stare assieme di figli di religioni diverse manifesta –come una liturgia- il valore del dialogo, via della pace. Le religioni non sacralizzano la guerra, anche se questo è avvenuto in passato. Solo la pace è santa, non la guerra.
Pace non è parola banale o generica, ma intimamente connessa a Dio stesso. Dire pace a Sarajevo acquista un tono grave e impegnativo. I leader religiosi di questa terra sanno che pace è parola sofferta, ma anche l’aspirazione della loro gente ed è infine dono di Dio.
Giovanni Paolo II, fin dal 1986, in un mondo segnato dalla guerra fredda, aveva ribadito il legame inscindibile tra religioni e pace. Per questo convocò a Assisi nel 1986 i leader religiosi per pregare insieme per la pace: “Forse mai come ora nella storia dell’umanità –disse- è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il grande bene della pace”. In questo spirito (è stato l’impegno della Comunità di Sant’Egidio) abbiamo camminato, anno dopo anno, dall’86, in tante città del mondo, convinti che la dimensione spirituale è decisiva per cancellare guerra, etnicismi, fondamentalismi, fanatismi. Autentica religiosità e pace sono tra di loro connesse. Ma bisogna mostrare al mondo, anche fisicamente, che i diversi stanno insieme.
Un compagno del nostro cammino dal 1987, il card. Carlo Maria Martini, scomparso qualche giorno fa, -e rivolgo a questo grande maestro un pensiero grato- diceva chiudendo il meeting di Milano nel 1993:
“…dall’incontro dei diversi percorsi religiosi viene un grande aiuto per muoversi in maniera meno ripiegata su se stessi, più capaci di cogliere la complessità della vita e del mondo. Si diviene anche più capaci di cercare, assieme, le soluzioni per i conflitti impossibili… Non c’è futuro nella guerra… Non c’è speranza che le guerre tacciano senza il cambiamento del cuore dell’uomo. Non c’è forza più potente della debolezza della preghiera”.
La preghiera è una forza umile e potente. Per questo i nostri incontri sono intessuti di preghiera. C’è un grande valore nell’incontro tra donne e uomini di religione, quando si realizza una liturgia dell’amicizia e del dialogo, quando si prega gli uni accanto agli altri. Sì, gli uni accanto agli altri: mai più gli uni contro gli altri, come talvolta è avvenuto! Stare insieme, allora, diventa la profezia e l’indicazione di un mondo di pace, soprattutto delegittima lo scontro etnico, di civiltà e di religione: crea la civiltà del vivere insieme.
In più di venticinque anni di cammino nello spirito d’Assisi, abbiamo sperimentato come la forza spirituale fondi una pace vera. Una forza é debole che non possiede armi o risorse, ma reale e a suo modo potente. Le religioni cambiano l’uomo dal di dentro, suscitando un atteggiamento pacifico. Parlano alla donna e all’uomo, partendo dalla coscienza di ognuno. Un mistico islamico, Jalal al Din Rumi, scrive: “la prima lotta la compie su se stesso, purificando il proprio carattere. Inizia da te stesso”. Insegna il saggio ebreo Martin Buber: “Il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso”. Uomini che trasformano se stessi cambiano il mondo e fondano la pace. Di questo ha bisogno la vita quotidiana come la politica.
Popoli diversi si mischieranno sempre più. Le frontiere non fermano il movimento della storia, accentuato nell’età della globalizzazione: genti diverse si avvicinano e prendono a vivere insieme. L’emigrazione manifesta questo movimento di avvicinamento, che ha creato in Europa (ma non solo) inedite convivenze, impensati vicinati. Gli esseri umani, sospinti dalla necessità e dalla storia, vanno ad abitare accanto ad altri. Non si creano allora pericolose convivenze? Non sono destinate a divorzi tragici o a conflitti permanenti? Vivere insieme deve trasformarsi in un destino di pace. 
Creare tale futuro è il grande compito delle religioni, che insegnano come agli occhi di Dio gli uomini siano uguali e che le diversità non cancellano l’uguaglianza nell’umanità. Gli uomini e le donne sono allo stesso tempo uguali e diversi. Le religioni lo sanno e debbono dirlo all’orecchio di ognuno e nel cuore dei popoli. Noi lo diciamo, come una carovana di umili conoscitori dell’umano. Lo diciamo e lo viviamo a Sarajevo, con l’aiuto di tanti amici. Lo viviamo nella costruzione europea, nata da spiriti credenti, e qui è rappresentata da uomini di valore e di spirito, come il Presidente Van Rompuy e il Presidente Monti.
Giovanni Crisostomo esprimeva un sogno: “Mostriamo dunque una vita nuova; facciamo della terra un cielo…”. E’ una sfida ai credenti. Attraverso la qualità della vita degli uomini, la terra può trasformarsi. Non i paradisi delle ideologie o delle rivoluzioni. Infatti le religioni insegnano a vivere quella parola chiave che è responsabilità: parola personale, temibile, dinamica e suscitatrice di energie smisurate.
Abbiamo sofferto tragedie nella storia, ma molta strada è stata fatta, come vediamo dalla bella immagine dei credenti qui riuniti insieme. Abbiamo cominciato a conoscere i popoli in modo più umano. Le religioni possono aiutarci a crescere in questa conoscenza più umana. Lo diceva il saggio patriarca Athenagoras, che aveva vissuto la guerra mondiale nei Balcani:
“ho conosciuto gli slavi. Ho osservato tedeschi e austriaci. Ho vissuto…con i francesi. Tutti i popoli sono buoni. Ciascuno merita rispetto e ammirazione. Ho visto soffrire gli uomini. Tutti hanno bisogno di amore. Se sono cattivi, è perché non hanno conosciuto il vero amore… So che ci sono oscure forze demoniache; che talvolta s’impadroniscono degli uomini o dei popoli…. Ma l’amore di Dio è più forte dell’inferno.”
Questo testimoniano le religioni. Il futuro ci avvicinerà geograficamente. Occorre prepararci a essere vicini spiritualmente, perché siamo tanto diversi, ma così uguali. Solo in questo modo il futuro potrà essere vivere insieme in pace.

Messaggio del papa per l'Incontro di Sarajevo
Benedetto XVI

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