Mi chiamo Anne, sono della Costa d’Avorio e ho 32 anni.
Sono nata in un villaggio del sud, molto piccolo, dove tutti si conoscono, dagli anziani ai bambini.
Lì vivono contadini che lavorano nelle piantagioni di caffè, cacao e banane per sopravvivere.
E’ un villaggio dove i bambini non hanno molto per vivere, anche vestirsi è difficile, e ancora di più trovare una cosa decente da indossare: in genere si usano dei pezzi di stoffa che si annodano intorno al collo.
Quasi nessuno, quando io ero piccola, aveva le scarpe, adesso sì, si cominciano a vedere.
Anche i giocattoli non ci sono, le bimbe usano l’erba sradicata: la lavano bene e ci costruiscono una bambola: le radici rappresentano i capelli.
Non ci sono i negozi come in città, e i bambini fabbricano da soli i giocattoli, con quello che trovano. Sono felicissimi quando riescono a realizzare ciò che vogliono con scatole vuote, legno, barre di ferro, elastici, lattine.....
Al villaggio c’è solo la scuola elementare, ma si deve pagare, come ogni cosa in Costa d’Avorio: si deve pagare l’iscrizione, i libri, la divisa, il materiale scolastico e solo pochi bambini possono permetterselo.
Mia madre aveva 15 anni quando io sono nata. Era una giovanissima ragazza madre.
Nella nostra tradizione una ragazza madre è un disonore per la famiglia. Poiché andava a scuola in una città vicina, mia nonna pensò di farla restare in città, durante la gravidanza.
Quando io sono nata, mia nonna mi ha portato al villaggio e mi ha cresciuto come se fossi sua figlia, ma aveva pochi soldi. Le suore venivano dalla città ogni settimana e le portavano il latte, i vestiti e controllavano la mia salute. Facevano sempre così, non solo per me, ma anche per gli altri bambini in difficoltà. E così, con il loro aiuto, puntuale ogni settimana, io ho passato i miei primi 12 anni al villaggio. Lì ho potuto anche studiare, ma per continuare gli studi le suore mi hanno portato con loro in una città più grande.
Lì c’era un orfanotrofio con 150 ragazzi, dove sono rimasta per 7 anni. I più piccoli avevano 2 anni e i più grandi 15. Vivevamo tutti insieme, ognuno aveva una storia diversa: c’erano figli avuti al di fuori del matrimonio, oppure figli di madri troppo giovani per potersi occupare di loro, bambini senza padre o orfani respinti dagli altri parenti. Le suore si sono prese cura di noi, sperando che le nostre famiglie tornassero a prenderci e che gli orfani fossero presto adottati.
Tutto l’indispensabile era garantito, ma ci mancava il calore della famiglia: la sera a letto noi pregavamo che qualcuno pensasse a noi. Speravamo anche che qualcuno ci portasse fuori a fare qualche gita ed eravamo invidiosi dei bambini che uscivano e ritornavano con piccoli regali o cose da mangiare.
Sognavo di avere una famiglia, di essere coccolata. Ho saputo che mia mamma stava nella stessa città, sposata con 3 figli, ho subito avuto il desiderio di andare lì e farmi riconoscere. Lei sapeva che io ero in orfanotrofio, la nonna glielo aveva detto.
Quando mi sono presentata lei mi preso con sè e sono rimasta con lei due anni, ma è stata dura con suo marito: c’erano molte difficoltà e lì non potevo più rimanere. Io cercavo di rimediare qualche piccolo lavoro in parrocchia per poter mangiare.
A questo punto il parroco della chiesa si è preoccupato e ha pensato che non potevo continuare a cercare lavoro tutto il giorno, ma che dovevo studiare. Infatti avevo anche smesso di andare a scuola. Pensò così alla possibilità di farmi adottare a distanza: avevo bisogno di una famiglia. Lui conosceva una famiglia italiana che poteva aiutarmi.
Con il loro aiuto sono riuscita a pagare la retta di un nuovo collegio ad Abidjan, e ho potuto continuare gli studi e diventare infermiera. Spesso ero malata e loro mi hanno pagato le cure, perché in Costa d’Avorio le cure costano: si pagano i medici, le medicine l’ospedale, niente è gratuito.
Da loro ho ricevuto tanto: mi mandavano dei regali, vestiti, le cose per la scuola, medicine. Io che ero venuta in città senza nulla, ora avevo tanto.
Che gioia è stato sapere di avere una famiglia, qualcuno che si preoccupa di te anche se non lo vedi.
Ogni volta che arrivava una lettera ero felice, mi raccontavano le loro gioie e preoccupazioni per me, io raccontavo loro i miei problemi e le mie preoccupazioni di allieva. Mi davano dei consigli, erano veramente per me la mia famiglia.
Comunque la distanza non contava: avevo sempre la loro foto con me. La stanza del collegio aveva le pareti piene delle loro foto e ce n’erano anche nei quaderni di scuola!
Rileggevo sempre le loro lettere e le loro parole toccavano il più profondo del mio cuore.
Un giorno una bella sorpresa: arriva una cartolina in cui si annuncia la prossima visita di C., “il mio padre adottivo a distanza”. Contavo i giorni, le ore e i minuti. Avevo anche un po’ di paura: pensavo: “Non gli piacerò!”
Allora mi sono fatta le treccine e mi sono comprata un nuovo vestito. Ero felicissima di vederlo per la prima volta in carne ed ossa. Mi chiedevo: “Come sarà? Si sarà invecchiato? Che carattere avrà?”
Gli ho comprato un bel mazzo di fiori e l’ho aspettato all’aeroporto: ero nervosa, tesa. Al suo arrivo il cuore mi batteva e quando mi ha chiesto se ero Anne ho riposto “Oui!”.
Lui mi ha subito abbracciato: E’ stato il giorno più bello della mia vita. La sera abbiamo cenato insieme al parroco, e per una settimana intera l’ho accompagnato a visitare la città. Poi è ripartito, ma io ero felicissima.
Ho continuato a vivere sperando di poter incontrare ancora la mia nuova famiglia. E anche in questo sono stata esaudita: una volta, sono venuta in Italia ospite della mia famiglia adottiva che mi ha accolto come una figlia. Mi sono sentita veramente a casa. Vivendo con loro non smettevo di ringraziarli ma mi hanno fatto capire che quello che per me era un aiuto incommensurabile, per loro era un piccolissimo sacrificio e nonostante questo, io non cesserò mai di essere riconoscente.
Quando ho finito gli studi non potevo più rimanere in collegio. La regola prevedeva che gli studenti andassero altrove. Così dovevo cercare un altro posto dove abitare: ho trovato un lavoro e ho affittato un appartamento. La mia nuova famiglia era orgogliosa di me: avevo un lavoro e una casa, anche se non mia.
Avevo giurato a me stessa di riuscire ad avere una casa mia per mettere delle radici. Per questo avevo risparmiato per comprare il terreno. Il Signore mi ha esaudito, e con l’aiuto della mia famiglia italiana, sono riuscita a costruirmi una casa che ho chiamato “villa della Provvidenza” per non dimenticare che è stato un dono di Dio.
Lungo tutta la mia vita, il fatto di sapere che c’era una famiglia che credeva in me ed era pronta ad appoggiarmi mi ha aiutato a crescere avendo fiducia in me stessa, a fare dei progetti e ad attuarli e a non lasciarmi scoraggiare dal pessimismo che si respira in Africa.
Nel frattempo ho conosciuto la Comunità di Sant’Egidio ad Abidjan.
Con loro è iniziata una nuova storia di amicizia che ha cambiato la mia vita. Ho cominciato a guardare il mondo con uno sguardo diverso, cercando di dare agli altri l’affetto che anch’io avevo ricevuto. E adesso noi della Comunità ci diamo da fare per aiutare specialmente i bambini delle bidonville e dei quartieri poveri facendo loro la scuola e i corsi di alfabetizzazione.
Vorrei restituire agli altri, a tante ragazze come me, la forza e l’amore che mi ha dato la famiglia adottiva e comunicare lo stesso spirito della Comunità di Sant’Egidio che è quello di vedere nel volto di ogni povero il volto di Gesù “Tutto quello che avrete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli l’avrete fatto a me” .
Io credo che l’adozione a distanza è dare con poco a tanti la possibilità di avere un futuro migliore.
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